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domenica 19 dicembre 2010

La coscienza ha un elaboratore centrale? (2ª Parte)

La teoria di Tononi-Edelman possiamo classificarla come una teoria empirica della coscienza (Paternoster, 2010) in quanto è basata sulla neurobiologia e, quindi, si fonda essenzialmente su studi scientifici relativi alla biologia del cervello.
Cionondimeno postula, come abbiamo visto, una sorta di "elaboratore centrale" (il nucleo dinamico all'interno del sistema talamocorticale) da cui dipenderebbe l'emergere della coscienza e questo assunto la rende in qualche modo paragonabile - anche se solo analogicamente - con la teoria "mentalista" di tipo computazionale - rappresentazionale di Jerry Fodor (abbreviata anche in TCRM) di cui ho accennato, ma che vorrei adesso approfondire un pò meglio.

Secondo Fodor esiste un vero e proprio "linguaggio del pensiero"che è stato chiamato mentalese e che è inserito all'interno di una psicologia computazionalista (cioè che si fonda sul concetto di computazione di tipo Turing) nella quale l'idea centrale è che gli stati mentali sono di natura rappresentazionale, cioè "veicolano informazioni sul mondo e ce lo presentano in un certo modo" (Paternoster, cit.) attraverso il predetto linguaggio della mente. Tali rappresentazioni sono linguistiche perchè:
1. Hanno parti costituenti che si combinano fra di loro in base alle regole di una sintassi;
2. Le loro parti atomiche, cioè i costituenti strutturalmente semplici, hanno un significato che può essere un individuo o una proprietà nel mondo;
3. Sono composizionali, cioè il loro significato è determinato dal significato dei loro costituenti e dalla loro natura sintattica;
4. Le espressioni di tipo enunciativo hanno un valore di verità e intrattengono fra di loro relazioni logiche di implicazione (Paternoster, cit.).

Schema delle relazioni tra i sistemi mentali secondo Fodor. 
I trasduttori trasformano i segnali fisici in segnali computabili
dal cervello; i sistemi di input interpretano questi segnali
con specifiche modalità e li inviano all'elaboratore centrale
preposto alla fissazione ed alla revisione delle credenze.

Dunque il "mentalese" è costituito da una sintassi fatta da simboli e che funziona, molto in sintesi, in maniera analoga ad una macchina di Turing, in particolare "le computazioni con cui la TCRM identifica i processi mentali consistono tipicamente nella generazione di una successione di simboli, tale che la scelta del simbolo da generare a un certo passo dipende esclusivamente dal simbolo al passo precedente e dalle regole sintattiche (...) La computazione consiste cioè in una successione logica di stati di credenza che consente ad un agente di arrivare ad una certa conclusione partendo da certe premesse o eventualmente di produrre un certo output comportamentale. Ne consegue che per la TCRM ogni volta che un agente si trova in un certo stato di credenza intrattiene una relazione con un simbolo del linguaggio del pensiero" (Paternoster, cit.).
Quello di Fodor è detto anche funzionalismo computazionale (per funzionalismo si intende, come già detto, una visione della mente divisa in aree funzionali e specializzate) in cui "i processi cognitivi sono manipolazioni di rappresentazioni in base a regole" dove tali regole sono "cablate nella mente".
La TCRM è dunque una teoria che "prende alla lettera l'analogia fra la mente e il software di un elaboratore e costituisce la versione più fedele, oltre che storicamente più fortunata, del funzionalismo computazionale" (Paternoster, cit.).

Ci troviamo, dunque, in una prospettiva tipica della cosiddetta intelligenza artificiale classica (GOFAI, Good Old Fashioned Artificial Intelligence) in cui i rapporti fra sintassi e semantica sono interamente regolati dalla logica simbolica e in cui "gli stati mentali sono analoghi agli stati di una macchina di Turing e i nessi causali tra stati mentali (e quindi i ruoli funzionali) sono spiegati da relazioni sintattiche che sussistono fra i simboli del linguaggio del pensiero" (Paternoster, cit.).

Il tipo di semantica della TCRM è di tipo causale-informazionale in cui "il contenuto di una rappresentazione è dato da ciò con cui la rappresentazione covaria in base ad una legge causale (...) Secondo Fodor le espressioni del linguaggio del pensiero hanno un unico valore semantico, il loro riferimento, e il riferimento è considerato essere il converso di una relazione causale" (Paternoster, cit.).


Una obiezione famosa a questo tipo di approccio è quello della stanza cinese di John Searle, che stando a quanto afferma Douglas Hofstadter "è un filosofo che ha speso gran parte della sua carriera a dileggiare la ricerca nel campo dell'intelligenza artificiale e i modelli computazionali del pensiero, traendo un particolare piacere dal ridicolizzare le macchine di Turing" (Hofstadter, 2008), ma che comunque rende l'idea di come sia "spigoloso" il paragone stretto tra computazione e pensiero.

Un aspetto teorico fondamentale della TCRM di Jerry Fodor è quello della modularità della mente, in cui si ipotizza che da un lato esistano dei moduli mentali specializzati dai quali dipendono i relativi processi modulari e dall'altro esistano processi non modulari che invece risalgono ai processi centrali di un elaboratore centrale.
Come dice Massimo Piattelli Palmarini (2008) :
"La fissazione e la revisione delle credenze è per Fodor il prototipo di attività mentale non modulare. In questo processo, infatti, si prendono in considerazione, e si soppesano variamente, tutti i dati disponibili e pertinenti, magari analizzati sotto profili diversi, mettendoli a confronto gli uni con gli altri e con le credenze che abbiamo già fissato. Tale processo è definito 'isotropo' e 'quineano' (dal nome del filosofo americano Willard Quine, strenuo propugnatore della tesi secondo la quale ogni conoscenza umana è inserita in una vasta rete) perché con esso si procede lungo qualsiasi direttrice ritenuta utile e si è pronti ad abbandonare qualsiasi sistema di credenze, comunque vasto e ramificato, che risulti incompatibile con i dati disponibili e con le credenze nuove".

La cosa fondamentale è che per Jerry Fodor non è possibile comprendere in egual misura i processi modulari da quelli non modulari o centrali. Infatti egli afferma "Meno un processo mentale risulta modulare, meno lo si capisce. I processi che non sono affatto modulari non li capiamo affatto" (la Prima legge di Fodor della Psicologia, Palmarini cit.; non c'è una seconda legge di Fodor e anche la prima in realtà è da intendere in senso "semiserio" come dice Palmarini stesso).

Come dice sempre Palmarini : "Fodor sostiene che le scienze cognitive hanno fino a ora fallito proprio laddove esse avrebbero dovuto, astrattamente, mietere i più importanti successi, cioè nella comprensione del pensiero. La sua è una critica al trionfalismo di Steven Pinker e in generale al trionfalismo degli psicologi cosiddetti evoluzionisti".


In sintesi, dunque, per Fodor la mente ha un elaboratore centrale (che possiamo paragonare alla coscienza secondaria di Edelman) i cui processi al momento sono alquanto ignoti alle scienze cognitive, che si interfaccia con i moduli mentali (attraverso le cd. "categorie di base", che sono per Fodor delle categorie cognitive primarie come "gatto", "tavolo", "triangolo" ecc.  e hanno uno stretto rapporto con l'innatismo dei processi percettivi e cognitivi, di cui invece conosciamo e possiamo conoscere il funzionamento. Sempre Palmarini dice che:
"La classe dei moduli comprende i cosiddetti sistemi di input, cioè degli analizzatori automatici di segnali che si situano a valle dei 'trasduttori' veri e propri (come la retina nel caso del sistema visivo), e a monte dell'elaborazione di livello più elevato. Un'onda acustica complessa, per esempio quella corrispondente ad una frase, viene 'trasdotta' in segnali nervosi dal sistema del timpano e della membrana (dunque, i trasduttori), successivamente analizzata in parole, sillabe, morfemi, costituenti frasali da un apparato di sistemi di input, e poi semanticamente interpretata da un sistema concettuale molto probabilmente non modulare. Si noti che la classe dei sistemi di input non costituisce una innovazione rispetto alle teorie psico-fisiologiche classiche. Quello che costituisce una ri-categorizzazione scientifica basilare e tutt'altro che ovvia, che Fodor riprende da Noam Chomsky, è la seguente uguaglianza:
INSIEME DEI MODULI MENTALI= (SISTEMI DI INPUT + LINGUAGGIO)".


Pertanto, l'interpretazione semantica sarebbe non modulare mentre i processi sintattici sarebbero di tipo modulare.
Ci rendiamo dunque conto come nella teoria di Fodor ci si imbatta più che mai nell' "hard problem" della coscienza, poiché concependo quest'ultima in qualità di elaboratore centrale da' luogo ad un radicale dualismo delle proprietà rispetto ai moduli mentali.
Tale dualismo è stato sottoposto a dura critica (ad es. da Daniel Dennett) in quanto si configurerebbe come una forma di materialismo cartesiano in cui si postula un "regista" interno al sistema cervello-mente che proietterebbe in una sorta di teatro le sue scene nelle quali gli attori periferici (i moduli) reciterebbero la propria "piccola o grande parte", ma sempre subordinata all'interpretazione e alla visione del regista.
E' evidente come questo approccio sia completamente diverso da quello del connessionismo e dello studio delle reti neurali di cui ho parlato qui e che secondo Fodor e Pylyshyn "non possono essere un modello appropriato della mente in quanto non sono in grado di dar conto dell'aspetto composizionale, o combinatorio, del pensiero." (Paternoster, cit.).
E' anche da dire che gli attuali sviluppi delle reti neurali, ad es. quelle ricorsive, e lo studio dei sistemi dinamici continui (computazione analogica) sta dando dei risultati anche in ambito linguistico, ma al momento sembra che "l'aspetto composizionale sia catturato meglio dai sistemi simbolici classici" (Paternoster cit.).
Molto probabilmente sarà un approccio basato su un "equilibrio" fra cognitivismo e connessionismo a fornire risultati migliori, ma è evidente come il panorama delle teorie della mente sia più che mai articolato e dibattuto e come sia al momento quasi inevitabile imbattersi in qualche forma di dualismo quando si arriva a parlare di coscienza, a meno di non eliminarla completamente dall'enciclopedia scientifica come fanno gli eliminativisti.
Resta il fatto che, come per la ricerca di una teoria del tutto in ambito fisico, anche qui ci troviamo di fronte a una pluralità di modelli che al momento non si riesce a racchiudere e far convergere in un unico modello della coscienza. E forse che non sia meglio così e che la "resistenza" ad un'unica teoria onnicomprensiva sia una sorta di assicurazione per la conoscenza.

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Letture consigliate:
Massimo P. Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, Einaudi 2008.
Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, La Terza, 2010
Jerry Fodor, La mente non funziona così. La portata e i limiti della psicologia computazionale, La Terza, 2004.
Sul Web:
http://plato.stanford.edu/entries/modularity-mind/




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sabato 11 dicembre 2010

La coscienza ha un elaboratore centrale? (1ª Parte)

Sempre grazie agli stimoli di alcuni amici di Facebook vi segnalo una interessante rivista on line, Scienza e Filosofia, dalla quale ho tratto questo breve saggio di Giulio Tononi, di cui ho già parlato qualche tempo fa in merito alla teoria della informazione integrata, che assieme a Gerald Edelman ha teorizzato l'esistenza di un nucleo dinamico talamo-corticale che dovrebbe essere l' "artefice" principale della coscienza nella sua forma primaria (quella che hanno anche gli animali, come ad es. un cane, una scimmia ecc.) e secondaria (l'autocoscienza tipicamente umana).


Come sempre cercherò di fare una sintesi, lasciando poi a chi vuole approfondire la lettura integrale del testo e qualche nota bibliografica che spero possa essere utile, nell'intenzione di cercare di delineare per sommi capi quelle che sono le attuali teorie scientifiche e filosofiche sul sistema cervello-mente.
In questo breve saggio, Giulio Tononi si rifà alle ricerche condotte con Olaf Sporns e Gerald Edelman, con il quale condivide in massima parte la sua teoria della coscienza. In particolare, procederò a sintetizzare per punti i concetti salienti del saggio e poi a farli oggetto di una riflessione critica.
Vediamoli assieme:

1.  Segregazione e integrazione funzionale nel sistema nervoso centrale

In questo paragrafo Tononi afferma : "Che aree cerebrali diverse siano specializzate a svolgere compiti diversi è ormai praticamente un dogma della neurofisiologia. All’interno di ciascuna area, poi, gruppi neuronali diversi si specializzano per aspetti specifici di una sottomodalità, per esempio una particolare frequenza acustica, un particolare settore del campo visivo, e via dicendo. La parcellazione della corteccia in aree e sottoaree specializzate per specifiche modalità sensoriali o motorie, per sottomodalità (movimento, colore, forma ecc. nel caso della visione), e per sotto‐sottomodalità ancora più frammentarie, fa ormai impallidire la cartografia dei frenologi di un tempo. Eppure, a dispetto dell’imponente evidenza a favore della specializzazione locale, è altrettanto chiaro che l’attività cerebrale è integrata a molti livelli diversi, dall’integrazione tra singoli neuroni, a quella tra gruppi neuronali, a quella tra aree cerebrali diverse."
(...)
"La contrapposizione apparente tra specializzazione e integrazione funzionale è all’origine, di una delle più antiche controversie in neurologia e neurofisiologia: quella tra approcci cosiddetti localizzazionisti da un lato e approcci più olistici, o antilocalizzazionisti, dall’altro. Come sempre in questi casi, la verità sta probabilmente nel mezzo".

Ne emergono concetti fondamentali come quelli del funzionalismo, di cui ho già accennato qui e qui, di  gruppo neuronale specializzato, di integrazione a più livelli dell'attività cerebrale a partire dai singoli neuroni per arrivare alle aree funzionali del cervello.

Fontehttp://willcov.com/bio-consciousness/


2.  Nozione di integrazione dell’informazione

Qui Tononi dice: "abbiamo sviluppato delle simulazioni su larga scala che incorporano gli aspetti salienti dell’architettura e del funzionamento del sistema talamocorticale, concentrando i nostri sforzi sul sistema visivo, meglio conosciuto."
(...)
"In sintesi, l’uso combinato di modelli al calcolatore che incorporano gli ingredienti di base dell’anatomia e della fisiologia del sistema talamocorticale ha consentito di dimostrare che specializzazione e integrazione funzionale vi coesistono in maniera naturale e danno luogo a un comportamento che da un lato è unitario, e dall’altro presuppone l’utilizzo di svariate sorgenti di informazione. Questi modelli aiutano a comprendere i meccanismi neurali tramite i quali ha luogo l’integrazione dell’informazione, come il rientro e il suo ruolo nella genesi delle correlazioni temporali rapide."
(...)
"Per ragioni che non analizzeremo in questa sede, la nozione e le misure di informazione utilizzate in teoria dell’informazione, pur avendo grande generalità teorica e importanti applicazioni pratiche, si sono sempre mostrate poco adatte a caratterizzare gli aspetti semantici dell’informazione, ossia l’“informazione” nel senso comune del termine. Ciò dipende dal fatto che tali misure sono generalmente usate per quantificare la qualità della trasmissione di informazione già data, anziché
l’integrazione dell’informazione all’interno di un sistema autonomo che deve adattarsi al mondo esterno."

Da quanto evidenziato, possiamo estrapolare i seguenti concetti: per Tononi assume fondamentale importanza il meccanismo neuronale di rientro, in particolare all'interno del sistema talamo-corticalee quello di integrazione dell'informazione, che si distanzia da una visione meramente computazionale e sintattica dell'informazione a favore della descrizione anche degli aspetti semantici della medesima e, infine, l'importanza dell'adattamento all'ambiente  (la mente è "embodied" ed è parte dell' econicchia).

Fontehttp://www.pnas.org/content/105/9/3593/F1.expansion.html
3. Misura dell’integrazione dell’informazione

Questo è un aspetto importante perché consente di modellizzare in termini matematici un concetto che altrimenti "rischierebbe" di restare solo qualitativo. Tononi afferma che:
"Intuitivamente, l’integrazione è tanto maggiore quanto è maggiore il numero e la forza delle interazioni tra gli elementi di un sistema. Per semplicità, assumeremo che il sistema in questione sia il cervello, suddiviso in numerose aree funzionalmente specializzate. Senza fare ricorso a formule (per il modello matematico vedi qui, diremo che l’integrazione può essere definita come la dipendenza statistica totale tra queste aree. La mutua informazioneche misura la trasmissione di informazione – nel nostro caso fra due sottoinsiemi di aree cerebrali – è anch’essa definita in termini di dipendenza statistica. È così possibile valutare fino a che punto possono coesistere, nel cervello, integrazione e informazione."
(...)
"La coesistenza di integrazione e informazione può essere misurata esaminando la mutua informazione tra singoli elementi e il resto del sistema, e tra insiemi composti di un numero progressivamente maggiore di elementi. Si può dimostrare che la somma della mutua informazione media per tutte le bipartizioni di un sistema (suddivisioni in due parti l’una il complemento dell’altra), dalle bipartizioni tra un elemento e tutti gli altri a quelle tra metà degli elementi e tutti gli altri, definisce esattamente l’integrazione dell’informazione nel sistema. 
A tale nozione e misura abbiamo dato il nome di “complessità”, o “complessità neurale”."

Ne consegue un approccio statistico e geometrico alla descrizione dei meccanismi cerebrali in modo da dare conto della complessità biologica, che si cerca appunto di modellizzare matematicamente.
Più il sistema è integrato più ne aumenta la complessità (la "somma" delle parti "crea" nuova informazione attraverso l'integrazione e comportamenti cooperativi collettivi emergenti). 
4.  Soggettività dell’esperienza e il nucleo dinamico integrato

E' importante precisare che Tononi qui parla della cosiddetta coscienza primaria (non dell' autocoscienza tipicamente umana):
"Si noti che la soggettività elementare presa in considerazione in questo contesto non va confusa con la nozione di un “io” che è soggetto in quanto dotato di un concetto del sé, ossia di “autocoscienza”, né tanto meno con la nozione di “io” utilizzata in psicopatologia o psicodinamica. Tali aspetti della soggettività, per quanto importanti, fanno parte di quanto Edelman ha definito coscienza secondaria (“higher order consciousness”), in contrapposizione alla coscienza primaria, la semplice presenza di un' esperienza fenomenica integrata.
In questo contesto, è importante osservare che l’integrazione rapida dell’informazione deve avere luogo all’interno di un processo fisico specifico, e che tale processo fisico rappresenta, inevitabilmente,
un centro o punto di vista soggettivo e individuale. In particolare, è possibile ipotizzare che l’integrazione rapida di informazione nel cervello avvenga all’interno di un “nucleo dinamico integrato”."
(...)
"La quantità di informazione integrata nell’unità di tempo all’interno del nucleo dinamico integrato, ossia la sua complessità nell’unità di tempo, fornirà una misura del grado di coscienza, mentre la partecipazione efficace di questi o quei gruppi neuronali, di queste o quelle aree, determinerà i contenuti di coscienza.
Va sottolineato che, se l’integrazione rapida dell’informazione avviene nel cervello all’interno di un processo fisico con le caratteristiche di un nucleo dinamico integrato, ciò rende conto direttamente dell’individualità e della soggettività dell’esperienza cosciente. Questo perché, trattandosi di un processo fisico individuabile, dotato in quanto tale sia di un centro che di confini più o meno netti, il nucleo dinamico integrato rappresenta un punto di vista non solo metaforicamente ma anche
fisicamente."
(...)
"Per ragioni sia anatomiche che fisiologiche, è presumibile che in generale soltanto alcune regioni del cervello faranno parte di tale nucleo. Si tratterà perlopiù di regioni inserite nei circuiti talamocorticali, ove varie caratteristiche anatomiche e fisiologiche consentono che tramite il rientro abbiano luogo interazioni reciproche efficaci. Di momento in momento, gruppi neuronali diversi entreranno o usciranno dal nucleo. Talune aree saranno spesso o sempre parte del nucleo integrato, altre non
lo saranno mai, e altre ancora potranno entrarvi o uscirvi con grande facilità.
In genere, quando uno o più gruppi neuronali entrano a far parte del nucleo dinamico integrato, l’efficacia delle loro interazioni con gli altri gruppi neuronali del nucleo integrato subirà un’amplificazione non‐ lineare con tutte le caratteristiche di una transizione di fase."
(...)
"Il concetto di nucleo dinamico integrato suggerisce invece che attività e interattività possono essere dissociate, e che soltanto un insieme di gruppi neuronali fortemente e rapidamente interattivi è il processo fisico corrispondente all’esperienza cosciente".
(...)
"L’esistenza di un nucleo dinamico integrato è postulata sulla base di evidenze fenomenologiche, ma soprattutto è suggerita da innumerevoli dati provenienti dall’esperienza clinica con pazienti neurologici e psichiatrici, che vanno da coma, anestesia, sonno, disturbi dissociativi, sindromi da disconnessione, cervello diviso, a effetti differenziali sull’esperienza cosciente di lesioni o stimolazioni di aree diverse del cervello ecc., che non possiamo riassumere qui. È inoltre suggerito dall’architettura e dal funzionamento del cervello, in particolare del sistema talamocorticale."

Qui sottolineerei i concetti già citati di nucleo dinamico integrato (e il fatto che è postulato e non ancora dimostrato in maniera inequivocabile), non linearità, transizione di fase e l'importanza determinante del sistema talamocorticale.

5. La dissociazione

In questo paragrafo Tononi ci spiega come mai la coscienza primaria è molto probabile che emerga nel nucleo dinamico integrato nel sistema talamocorticale attraverso l'esempio dei fenomeni dissociativi, in particolare del sistema visivo:

"la ragione è da ricercarsi non in fattori quali le caratteristiche locali dei neuroni e della loro attività di scarica, bensì in fattori che favoriscono l’emergenza di un nucleo dinamico integrato nel sistema talamocorticale ma non in [altre] strutture. 
Tra tali fattori si possono enumerare, senza discuterne qui il ruolo specifico, la reciprocità delle connessioni cortico‐ corticali e talamo‐ corticali, le terminazioni diffuse negli stati superficiali della corteccia, la presenza di circuiti cortico‐talamo‐corticali in grado di mantenere un processo dinamico coerente anche in assenza di segnali esterni, la cooperatività locale di neuroni a formare gruppi neuronali, la presenza di un vasto sistema di sinapsi voltaggio‐ dipendenti che possono amplificare in modo quasi esplosivo l’efficacia di interazioni globali quando sia raggiunta una certa soglia, e la possibilità di creare un vallo inibitorio che limita ma al tempo stesso rafforza la persistenza del nucleo dinamico integrato. 
Tutti questi fattori facilitano il processo del rientro, lo limitano a territori talamocorticali, e consentono quindi di spiegare perché solo in queste aree si diano le condizioni per sostenere un nucleo dinamico integrato delle proporzioni e caratteristiche necessarie per l’integrazione rapida di una grande quantità di informazione."
(...)
"Il preconscio corrisponderebbe a attività neurali che potrebbero contribuire direttamente all’esperienza cosciente, ma non sono nel caso specifico sufficientemente intense per farlo, o lo sono per un periodo di tempo troppo breve e si trovano, per così dire, alla periferia della coscienza (...) Il subconscio rappresenterebbe invece quei processi neurofisiologici che, per sede e natura, potrebbero in altre circostanze entrare a far parte del nucleo dinamico integrato dominante, e che sono inoltre sufficientemente attivi, e tuttavia non lo fanno."
(...)
"Qualche indicazione neurofisiologica sulla presenza di questo tipo di processi anche nel soggetto normale ci viene da studi sulla rivalità binoculare, in cui l’attività di neuroni corticali a volte si correla e a volte non si correla con la percezione cosciente (presunta)." 
(...) 
"Il problema del numero e dell’estensione di processi neurofisiologici dissociati che possono coesistere nel sistema talamocorticale sono quindi un aspetto centrale ma ancora del tutto misterioso della neurofisiologia della vita psichica."

6. La coscienza secondaria e la soggettività

Infine, in questo paragrafo Tononi si esprime in merito all' "hard problem" della coscienza secondaria e soggettiva tipica dell'essere umano:

"In sintesi, abbiamo visto che considerare la coscienza come l’aver luogo di un certo processo fisico – l’integrazione rapida di una grande quantità di informazione entro un nucleo dinamico integrato – rende conto di tre sue caratteristiche fondamentali: l’informatività, l’integrazione e la soggettività. 
La coscienza è varia, multimodale, ricca di contesto e di passato perché comprende una grande quantità di informazione; è unitaria, perché tale informazione è integrata, è dinamica, perché l’informazione integrata cambia di momento in momento, se pur con una certa inerzia; e possiede una soggettività intrinseca, perché il nucleo dinamico entro cui avviene l’integrazione dell’informazione è un processo dai confini fisici abbastanza netti. Tale nozione ci spiega anche come certe strutture, di cui l’unica di cui abbiamo conoscenza diretta è il cervello umano, siano necessarie perché abbia luogo questo tipo di processo."
(...)
"Nasce così la necessità di esaminare le conseguenze della differenza irriducibile tra l’essere e il descrivere, una differenza così sostanziale che è persino tollerata tra i filosofi. 
È ragionevole pensare che tale differenza valga per ogni processo fisicoEssere un fiume, un fuoco, un’esplosione, o un essere vivente, compreso un pipistrello, è indiscutibilmente diverso dal descrivere quei processi fisici, sia pure
tramite le teorie fisiche più aggiornate e le misurazioni più dettagliate. Tale differenza vale anche per quel particolare processo fisico che è la coscienza. 
In quanto processo fisico, come abbiamo visto, la coscienza può venire da noi descritta e compresa in termini oggettivi o intersoggettivi. 
L’eccezionalità della coscienza sta però nel fatto che, oltre a essere descrivibile da parte di un soggetto (adulto), essa “è”, ed è irriducibilmente, quello stesso soggetto che la descrive."

Veniamo adesso ad una riflessione critica di questa teoria del sistema cervello-mente attraverso i suoi punti nodali, che possiamo così sintetizzare:

1. Abbinamento di funzionalismo (ci sono aree funzionali del cervello specializzate, così come singoli gruppi neurali) e complessità biologica (emergenza, non linearità, transizioni di fase, comportamenti cooperativi ecc.);
2. Il cervello è embodied ed assieme al resto del corpo è parte di una econicchia;
3. Esistenza di un centro dinamico del cervello da cui emerge la coscienza (il nucleo dinamico nel sistema talamocorticale e il relativo meccanismo del rientro);
4. Rifiuto di una visione computazionale di tipo "classico" del cervello (cioè applicata tout court dalla teoria dell'informazione alla biologia e pertanto il cervello non agirebbe seguendo regole logiche);
5. Distinzione fra coscienza primaria e coscienza secondaria;
6. Accettazione della soggettività della coscienza secondaria, ma anche affermazione della sua fisicità (naturalismo materialista);
7. Definizione matematica della coscienza primaria e anche degli stati qualitativi della coscienza secondaria (tentativo di misurazione scientifica e oggettiva);
8. Visione neo-darwinista con riferimento all'evoluzione ed alla selezione neuronale;
9. Scissione netta fra ontologia (cosa esiste e cosa c'è) ed epistemologia (descrizione e conoscenza).


Dunque, nella teoria di Tononi-Edelman (li possiamo assimilare con buona approssimazione) è fondamentale la coesistenza di specializzazione - che come si è visto può arrivare fino a singoli gruppi neuronali - e di integrazione/complessità (che presiede alla emergenza della coscienza) e c'è un rifiuto dell'ipotesi tipica del cognitivismo classico che il cervello funzioni attraverso delle computazioni "digitali". In merito, Edelman (2006) afferma:
"A che cosa possiamo fare riferimento dopo avere abbandonato l'idea di computazione? Possiamo rivolgerci all'idea fondamentale di Darwin di pensiero popolazionistico. Secondo la proposta di Darwin, le categorie (di caratteri o di specie) possono emergere per selezione da una popolazione di varianti ossia individui con differenti tratti distintivi" . Edelman poi fa l'esempio del sistema immunitario dove si è dimostrato che il riconoscimento immunitario degli anticorpi avviene per selezione e non per istruzione (quindi non c'è computazione) e formula quindi l'ipotesi che "il cervello, come il sistema immunitario, è un sistema selettivo che opera nell'arco della vita dell'individuo" che lui chiama darwinismo neurale.
Tale ipotesi darwinista si basa, come dice Edelman, su tre principi:
"Il primo è che lo sviluppo dei circuiti neuronali nel cervello produce un'enorme variazione anatomica microscopica che è la conseguenza di un processo di selezione continua. Una delle forze principali che guidano questa selezione nello sviluppo è data dal fatto che, persino nel feto, i neuroni che scaricano assieme si cablano assieme. (...) Il secondo principio è che quando il repertorio di circuiti anatomici che si formano riceve segnali provocati dal comportamento o dall'esperienza dell'animale ha luogo anche un altro insieme di eventi selettivi. Questa selezione esperenziale si realizza mediante cambiamenti della forza delle sinapsi già esistenti nell'anatomia cerebrale: alcune sinapsi si rafforzano altre si indeboliscono.(...) Il risultato finale della selezione nello sviluppo e della selezione esperenziale è che alcuni circuiti neuronali sono favoriti rispetto ad altri.
Avendo però abbandonato il computer con la sua logica ed il suo orologio, come si fa ad ottenere un comportamento coerente del sistema? E che cosa influenza il sistema in modo che produca risposte adattive? Il primo problema viene risolto dal terzo principio della teoria, che propone un processo chiamato rientro. Il rientro è la segnalazione incessante da una certa regione cerebrale (o mappa) ad un'altra e poi di nuovo alla prima lungo fibre massicciamente parallele (assoni) che sappiamo essere onnipresenti nei cervelli superiori. Le vie di segnalazioni rientranti cambiano costantemente di pari passo con il pensiero. L'effetto finale di questo traffico rientrante è la scarica sincronizzata di gruppi neuronali in particolari circuiti. E' così che si ottiene la coordinazione nel tempo e nello spazio che altrimenti dovrebbe essere garantita da qualche forma di computazione. Per capire come funziona il rientro, consideriamo un ipotetico quartetto d'archi composto da musicisti indisciplinati, ognuno dei quali suona la propria parte con un ritmo diverso. Ora colleghiamo i corpi dei suonatori con fili molto sottili (un gran numero di fili per ogni parte del corpo). Ogni suonatore, mentre si muove, segnalerà inconsapevolmente agli altri i propri movimenti. In breve tempo, il ritmo e in certa misura le melodie diventeranno più coerenti. Qualcosa del genere avviene anche nelle improvvisazioni jazz, ovviamente senza fili!"


Per spiegare, invece, la teoria della selezione dei gruppi neuronali Edelman introduce il concetto di sistema di valore all'interno del cervello, che verrebbe poi ereditato.
Infatti, egli afferma che: "affinché l'adattamento possa avere successo, deve esistere una qualche propensione che regola il risultato della selezione nello sviluppo e nella selezione esperenziale coordinate dal rientro. Anzi, in ogni specie questa propensione viene ereditata in forma di sistemi di valore presenti nel cervello per effetto della selezione naturale. Ciascuno di questi sistemi di valore in certe particolari circostanze rilascia un tipo di neurotrasmettitore o di neuromodulatore".


Per quanto concerne la distinzione tra coscienza primaria e coscienza secondaria, sempre Edelman dice:
"I cani ed altri mammiferi, se sono consapevoli, sono dotati di coscienza primaria, ovvero hanno l'esperienza di una scena unitaria in un intervallo di tempo di non più di qualche secondo, che io chiamo 'il presente ricordato', un pò come l'illuminazione di una stanza buia data dal fascio di luce di una torcia elettrica. Anche se sono consapevoli degli eventi in corso, gli animali dotati di coscienza primaria non sono coscienti di essere coscienti e non hanno un concetto di passato e futuro e neanche un sé nominabile. Per concepire tali astrazioni è necessario essere dotati di una coscienza di ordine superiore e a tal fine occorre avere capacità semantiche o simboliche."

Quindi, in estrema sintesi, i punti cruciali di questa teoria sono un interessante abbinamento della teoria evoluzionistica e della modellizzazione matematica della complessità, distinguendo nettamente il funzionamento del cervello da quello di un computer.
L'approccio metodologico è certamente "in terza persona" anche se si da' importanza alla soggettività tipicamente umana della coscienza secondaria (c'è in sintesi una ipotesi "riduzionistica" di tipo biologico di fondo, che si cerca di mitigare con quella di informazione integrata).
Il punto che potrebbe dare adito a maggiori perplessità è l'ipotesi del nucleo dinamico all'interno del sistema talamocorticale, che sembrerebbe postulare una sorta di elaboratore centrale dal quale dipenderebbe in massima parte l'emergere della coscienza.
Quella dell' "elaboratore centrale" è una ipotesi che è presente, in altri termini, anche nella teoria computazional-rappresentazionale di Jerry Fodor e che, come abbiamo visto, è stata ad esempio criticata da Daniel Dennett in quanto offre il fianco ad un'accusa di dualismo e di materialismo cartesiano.
Ne parlerò nel prossimo post.

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Letture consigliate:
Giulio Tononi, Gerald Edelman, Un universo di coscienza: come la materia diventa immaginazione, Einaudi 2000;
Gerald Edelman, Seconda Natura - Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina Editore, 2007;
Massimo P. Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, Einaudi 2008.


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venerdì 3 dicembre 2010

Wikileaks e l'altra faccia della politica

Ci risiamo e stavolta per Julian Assange, fondatore di Wikileaks (questo è il nuovo link dopo l'ultimo "oscuramento"), è una caccia al topo o, per chi ci crede, al "nemico numero uno" delle relazioni internazionali così come ci vengono raccontate dai mainstream media.
Julian Assange, fondatore di Wikileaks
Intanto, vorrei lasciare a chi se ne occupa per mestiere o per passione il compito di tirar fuori dai numerosissimi cablogrammi - ben 251.287 quelli rilasciati il 28 novembre scorso - le informazioni che dovrebbero farci aprire gli occhi sullo stato di salute delle nostre democrazie (non del nostro premier, hehe), mentre vorrei riflettere su quello che è lo scopo dichiarato da Assange e che ritroviamo nella home page del sito:
"This document release reveals the contradictions between the US’s public persona and what it says behind closed doors – and shows that if citizens in a democracy want their governments to reflect their wishes, they should ask to see what’s going on behind the scenesEvery American schoolchild is taught that George Washington – the country’s first President – could not tell a lie. If the administrations of his successors lived up to the same principle, today’s document flood would be a mere embarrassment. Instead, the US Government has been warning governments -- even the most corrupt -- around the world about the coming leaks and is bracing itself for the exposures."
Intervista di Chris Anderson a Julian Assange del luglio scorso (seleziona i sottotitoli)
Da quello che si legge, la teoria di Assange è che i politici dovrebbero dirci cosa accade "dietro le scene" e cosa essi pensano davvero di questo o quel premier, di questa o quella nazione, insomma dovrebbero essere sinceri e trasparenti.
Invece cosa si scopre? Che, ovviamente, non è così e che anzi ci sono un "oceano di spie" in giro per il mondo e che i diplomatici hanno una "doppia faccia" (se va bene...), così come i politici da cui dipendono.
Insomma, da un punto di vista di quello che già sapevamo sulla natura della politica niente di nuovo sotto il sole.

Del resto, l'essere umano, unico fra gli animali ad essere dotato di un linguaggio complesso, è anche quello che - come dice Umberto Eco -, è in grado di mentire in maniera tanto articolata da fargli definire la semiotica come lo studio della capacità di mentire attraverso il linguaggio ed i segni.
La capacità di mentire e di dissimulare è dunque una prerogativa che negli esseri umani ha raggiunto i suoi massimi livelli di espressione e, tale facoltà, non sembra essere una prerogativa esclusiva dei politici, che ovviamente hanno una particolare predisposizione in tale "arte", ma di tutti gli Homo Sapiens Sapiens.
Quindi quale è la novità di Wikileaks se non ci dice nulla di diverso sulla natura della politica? La novità è semplicemente che esiste (e ben venga!) e che quindi il mondo delle relazioni internazionali deve fare i conti con una realtà che prima non esisteva e che ha un impatto mediatico a dir poco esplosivo.
Il fatto che Wikileaks esista è la vera novità e quindi una analisi realista, al di là delle "facili" (ma anche sacrosante) indignazioni o stupori per questa o quella notizia, deve riflettere su come questo nuovo attore mediatico potrà effettivamente incidere sulla politica e sulla diplomazia e, più in generale, sulla democraticità dell'informazione e quindi delle democrazie occidentali e non, e su chi sia Wikileaks man mano che ne riusciremo a riconoscere meglio gli obiettivi (quindi "cosa vuole"), che al momento sembrerebbero "privilegiare" gli USA.
Anche qui, le ipotesi e i dubbi sono tanti: come mai esplode il fenomeno Wikileaks proprio durante l'amministrazione Obama? Chi appoggia tale organizzazione fornendole dati sensibili e confidenziali? E potremmo continuare con le perplessità per un pò.
E' evidente, dunque, che nemmeno chi si offre all'opinione pubblica come "paladino della verità" è esente da sospetti e da quel "lato oscuro" che pur si propone di disvelare nella politica.
Ne consegue che, come per il Web, dopo un iniziale entusiasmo di tipo "utopico" occorrerà rendersi conto che "il gioco" si è solo reso più complesso, ma che non ci sono salvatori all'orizzonte.
Dunque, benvenuto a questo nuovo "attore" sulla scena mediatica, ma restiamo sempre critici perché l'epoca degli ideali è purtroppo morta da un pezzo e forse non è mai esistita se non nella illusione di chi la ha sognata e ancora la sogna credendola possibile.

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domenica 28 novembre 2010

Daniel Dennett e la storia del pandemonio neuronale

Lo so, lo so che non vi sentite delle "scimmie tecno-digitali", ma d'altronde da lì veniamo da un punto di vista evolutivo e non dobbiamo vergognarcene più di tanto a patto di essere il più possibile critici e consapevoli su ciò che facciamo o che altri ci inducono a fare.
Come diceva Desmond Morris dopotutto siamo delle "scimmie nude" , ma chiaramente su questo substrato comportamentale da "primati" si è innestata l'evoluzione culturale e tutto ciò che ne è conseguito (vedi anche ad es. Luigi Cavalli Sforza, 2004).
Vi propongo adesso un video del filosofo Daniel Dennett di qualche anno fa sulla coscienza (ma la sua visione sul tema non è cambiata molto) che a sua volta ha proposto su Facebook l'amica Giovanna Di Giorgio, che pertanto ringrazio dello "stimolo" all'approfondimento.
E' per fortuna sottotitolato anche in italiano per cui basta che selezioniate la lingua in basso a sinistra nell'apposita finestra.

Il "Dennett pensiero" che emerge da questo video provo a sintetizzarlo nelle seguenti proposizioni:

1. Ognuno di noi si ritiene un esperto della coscienza per il fatto di essere un individuo pensante;
2. In realtà noi esprimiamo delle mere opinioni sulla coscienza come su altri argomenti, come ad es. il cambiamento climatico, senza essere degli esperti;
3. La nostra coscienza non è nient'altro che il risultato dell'interazione di "orde di neuroni", per la precisione 100 miliardi di cellule neuronali;
4. Vi è una perfetta identità fra stati neuronali e stati mentali;
5. Non ci sono cause o spiegazioni della coscienza che non siano squisitamente naturali e biologiche;
6. Non siamo coscienti di come il cervello percepisce la realtà esterna, i cui "dati" vengono "aggiustati" e previsti in maniera "bayesiana" e automatica (vedi i vari esempi di percezione delle immagini);
7. Non esiste un centro di comando all'interno del cervello che "dà ordini" a tutto il resto (negazione del cosiddetto "teatro cartesiano", detto anche "materialismo cartesiano");
8. Esiste tutt'al più una specializzazione funzionale delle aree del cervello (es. la specializzazione dei 2 emisferi cerebrali, la localizzazione delle funzioni soprattutto a breve termine della memoria nell'ippocampo ecc.).

Vediamo allora punto per punto in che modo e dove l'approccio di Dennett (che lui definisce eterofenomenologia) può essere considerato "riduzionista" attraverso le conseguenze di ogni assunto:

1. Questo punto mira ad escludere tout court il soggetto e la sua personale "teoria della mente", che potremmo definire "ingenua" o "folk psycology" (spiccatamente riduzionista) ;
2. Ne consegue che se il "soggetto non esperto" ha delle opinioni sulla coscienza e gli stati mentali, quindi esperienze soggettive di tali stati, tali esperienze non hanno alcun valore di cui la scienza debba tener conto. Quello che conta è l'osservazione "in terza persona" (spiccatamente riduzionista)
3. Il cosiddetto flusso di coscienza non è nient'altro che la dinamica dei miliardi di neuroni che compongono il cervello, ma non viene precisato quale tipo di dinamica (spiccatamente riduzionista);
4. Ne consegue che ad ogni stato mentale corrisponde sempre un unico ed identico stato cerebrale (configurazione neuronale), ossia che c'è una identità mente-cervello di tipo prevalentemente lineare e seriale, del tipo Turing-computazionale (riduzionista, adesione al funzionalismo computazionale);
5. Non ci sono cause extra-biologiche che originano la coscienza: si esclude, dunque, ogni metafisica della mente irriducibile alla fisica ed alla biologia del cervello (non riduzionista, ma "naturalista" ed anti-metafisico);
6. Il cervello ha dei meccanismi di funzionamento "a priori" che gli fanno percepire la realtà in una certa maniera (secondo certi "pattern") e questi meccanismi sono per noi quasi totalmente inconsci. Ne consegue una sorta di determinismo neurobiologico della percezione in cui la coscienza non interverrebbe quasi per nulla (riduzionista, "naturalista");
7. Non esiste un centro ed una periferia all'interno del cervello, ma è l'insieme delle "orde di neuroni" (il "pandemonio di homunculi dennettiano", cfr. Dennett 1991) che da' vita a pensieri e coscienza (non riduzionista, apertura alla scienza cognitiva postclassica ed al connessionismo);
8. Ci sono delle modularità del cervello associate alle varie funzioni mentali (non riduzionista, funzionalista, alcuni influssi della teoria computazional-rappresentazionale di Jerry Fodor).

In realtà Dennett non esclude del tutto la "psicologia del senso comune" o folk psycology, ma accetta implicitamente che "il fallimento della sopravvenienza degli stati mentali sugli stati computazionali comporti il divorzio fra la psicologia del senso comune, che è esternistica, e la psicologia scientifica, che è internistica (Paternoster, 2010)(l'internismo è una posizione in base alla quale il contenuto mentale viene considerato essenzialmente interno alla mente, mentre l'esternismo lo considera in parte determinato dall'ambiente).
Per Dennett, dunque, ci sono "due livelli di spiegazione, detti rispettivamente livello dei sistemi intenzionali (soggettivo e semantico) e livello del progetto (subpersonale e sintattico). Soltanto il funzionalismo computazionale è scientifico, ma questo non fa della psicologia del senso comune una teoria falsa, perché essa soddisfa criteri di adeguatezza quali coerenza interna e valore predittivo" (Paternoster, cit.).
In estrema sintesi, non viene negata la "realtà" del soggettivo, ma viene escluso che tale realtà possa essere oggetto di studio scientifico con teorie e modelli di tipo scientifico.
Ne consegue che per il nostro i "qualia" non esistono (ripeto, in senso scientifico) e che "nella versione dennettiana dell'eliminativismo si cerca di argomentare in favore dell'illusorietà della coscienza fenomenica combinando due strategie. Da un lato, Dennett riprende l'argomento comportamentistico, specificatamente wittgeinsteiniano, dell' impossibilità di riferirsi a stati privati: apparentemente noi parliamo come se avessimo stati privati di esperienza, ma un'attenta disamina di questo modo di parlare mostra come la supposta esistenza di tali stati non sia affatto un requisito necessario (comportamentismo logico, nda). Dall'altro lato, Dennett afferma che nel cervello non esiste un centro della coscienza, cioè un sistema centrale che coordina tutte le varie operazioni cognitive; esistono bensì una moltitudine di agenzie cognitive (Dennett li chiama anche "folletti" o "homunculi", nda) che operano in modo parallelo ed indipendente e l'impressione del controllo operato da un io cosciente scaturisce dal fatto che di volta in volta l'una o l'altra di tali agenzie guadagna l'accesso ai centri del linguaggio" (Paternoster, cit.).
Dunque, sarebbe l'emersione linguistica di questo "pandemonio neuronale" a dare l'impressione di un io cosciente e dei suoi qualia, che in realtà non ha una esistenza oggettiva e scientifica.
D'altronde non è chiaro per lo stesso Dennett come avvenga questa produzione linguistica, che dunque resta un grosso punto da chiarire se non si accetta la sopravvenienza degli stati "mentali" su quelli "computazionali" (di qualsiasi computazione si tratti).
Insomma, restano questi 100 miliardi di neuroni "indemoniati" che alla fine ce ne combinano di tutti i colori e per i quali non abbiamo una teoria soddisfacente che esprima come "diventino" l'insieme delle nostre esperienze, pensieri, parole.
Utilizzando la definizione di Ned Block che distingue una Coscienza-F (coscienza fenomenica, quella delle esperienze soggettive) ed una Coscienza-A (coscienza d'accesso, quella degli stati rappresentazionali e cognitivi, descrivibile in termini oggettivi ed in cui l'autocoscienza è una metarappresentazione ossia uno "stato mentale del secondo ordine" in cui riflettiamo su noi stessi), potremmo dire che Dennett non accetta nella maniera più assoluta l'esistenza della Coscienza-F e confida nel fatto che la scienza cognitiva riuscirà a spiegare la coscienza solo in termini di Coscienza-A.
Una buona visualizzazione grafica delle posizioni sullo studio della mente è quella di Francisco Varela nel suo saggio "Neurofonomenologia. Un rimedio metodologico al problema difficile" all'interno di "Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell'esperienza cosciente", a cura di M. Cappuccio, che riporto di seguito:

Dennett in qualche modo ha una posizione "mediana" tra un approccio fenomenologico proposto dallo stesso Varela (in prima persona) e uno riduzionistico-eliminativista come quello ad esempio di Paul e Patricia Churchland o di Francis Crick  e di Cristof Koch (approccio in terza persona e eliminazione degli stati mentali e rappresentazionali che sono ridotti a stati cerebrali tout court).
Come dice lo stesso Dennett (1991), d'altronde:

"La mia spiegazione della coscienza è tutt'altro che completa. Si potrebbe perfino dire che è stato solo un inizio, ma è un inizio perché rompe l'incantesimo creato dalle idee che fanno sembrare impossibile una spiegazione della coscienza. Io non ho sostituito una teoria metaforica, il Teatro Cartesiano, con una teoria non metaforica (letterale, scientifica). Tutto quello che ho fatto, realmente, è stato di sostituire una famiglia di immagini e metafore con un'altra: ho rimpiazzato il Teatro, il Testimone, l'Autore Centrale, il Figmento con il Software, le Macchine Virtuali, le Versioni Molteplici, un Pandemonio di Homunculi. E' solo una guerra di metafore - potresti dire - ma le metafore non sono solo metafore, le metafore sono gli strumenti del pensiero. Nessuno può riflettere sulla coscienza senza di esse, così è importante equipaggiarsi con il migliore insieme disponibile di strumenti. Guarda che cosa abbiamo costruito con i nostri strumenti. Avresti mai potuto immaginarlo senza di essi?"


Adesso è però ormai il tempo di teorie che non parlino solo di "homunculi" e di "pandemoni", ma che cerchino di spiegare la fisica della mente e correlarla alla sua neurobiologia, sperando che si possa addivenire ad una spiegazione non solo della Coscienza-A, ma anche di quella F, cosa per altro di cui molti dubitano.


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venerdì 26 novembre 2010

Come scimmie "tecno-digitali"?

Nel precedente post ho discusso delle "menti vaganti" e della tendenza che abbiamo a non essere focalizzati nel presente come possibile conseguenza della apertura logica della nostra mente. Questo stato di cose si è ipotizzato che abbia una diretta conseguenza sui nostri stati di infelicità, ma anche di felicità e creatività.
Osservando, però, i comportamenti sia miei sia delle persone che conosco on e off line mi sembra però che questa tendenza a vagare della mente sia più che controbilanciata da una tendenza strutturale, forse ancora più forte, a porre in essere degli schemi comportamentali consolidati e delle strategie cognitive ricorrenti. 
Sto parlando delle abitudini comportamentali e dei modi di interagire in ambito sociale e soprattutto cybersociale.
Se è vero che la nostra mente "vaga" continuamente (da cui, come è stato affermato, l'inutile tentazione di realizzare una improbabile "macchina leggi-pensieri") è anche vero che i nostri comportamenti sono di frequente molto standardizzati e spesso prevedibili, quindi anche manipolabili. E' come se la mente da un lato se ne andasse per "conto suo" lasciandosi fluire per lo più inconsapevolmente o con una consapevolezza "arrendevole" a processi "inconsci" (dinamiche complesse neurobiologiche e "multi-codice") mentre dall'altro si stabilizzasse (anche qui più o meno consapevolmente) su schemi abbastanza rigidi di interazione con sè stessa e con il mondo esterno (in questo giocano un fattore importante anche i memi culturali e le credenze). Questi schemi/abitudini possono essere di varia natura e possono essere sia il frutto di una sorta di successo evolutivo nella loro pratica e quindi avere fruttato a chi li possiede una utilità pratica (immagino ad es. i ruoli sociali altrimenti detti "maschera sociale"), ma possono essere anche delle "patologie" come ad esempio la dipendenza dalla droga, dall' alcol, stati di ansia continua o frequente, "tic comportamentali" ecc.
Nel caso di strategie cognitive che potremmo definire di "collaudato successo" l'abitudine comportamentale potremmo immaginarla come una sorta di adattamento utilitaristico al sistema nel quale si interagisce e quindi ad una sorta di principio economico del "massimo risultato con il minimo sforzo" o del "minimo danno" (ad esempio non di rado è più facile "sedurre" se si vuole convincere un terzo di una certa cosa piuttosto che cercare di spiegargliela razionalmente, oppure è più facile fare la "pecora nel gregge" che lottare in prima persona per un diritto ecc.) , mentre altre abitudini e schemi potremmo immaginare che siano acquisiti per una sorta di inerzia a non fare diversamente e quindi a "pensare criticamente" (qui trovi un articolo interessante sul pensiero critico di Tim Van Gelder intitolato "How are critical thinking skills acquired? Five perspectives"), altri schemi ancora possono essere di natura genetica o piuttosto epigenetica.
Tra gli schemi comportamentali indotti ci sono sicuramente quelli che ci vedono "protagonisti" nell'uso delle tecnologie in prevalenza digitali. Ecco che la manipolazione dei vari strumenti di cui disponiamo (cellulari, iPad, smartphone, pc portatili, videogames ecc.) diventa una sorta di rito abitudinario quotidiano, che spesso si trasforma in schemi automatici (il "mi piace" di Facebook può essere un esempio, ma anche l'uso a volte "ossessivo-compulsivo" dei cellulari e dei videogiochi) all'interno di schemi di comunicazione pre-fissati dalle varie applicazioni tecnologiche.
Questo agire e pensare per "schemi prefissati" - anche nel senso procedurale imposto dalle tecnologie - può portare a situazioni se vogliamo "inimmaginabili" pochi anni fa (ad es. relazioni che finiscono con una comunicazione su Facebook o con un sms, relazioni meramente virtuali, forme di "solipsismo tecnologico" ecc.) e ci dovrebbe far riflettere in che misura nel nostro utilizzo quotidiano di queste tecnologie ci comportiamo in maniera non difforme da una sorta di "scimmie tecno-digitali", in cui il comportamento imitativo e abitudinario è prevalente su quello critico e consapevole ed in cui la mediazione della tecnologia finisce per essere un comodo schermo alle proprie responsabilità di esseri umani.
Tra l'altro le nostre abitudini sono, come ben sappiamo, ampiamente monitorate sul Web dove a comprova di ciò da poco é stato avviato un progetto fra Google e IN-Q-Tel, una società che fornisce informazioni "intelligenti" alla CIA : si chiama Recorded Future e, come dice il nome, attraverso un algoritmo con il quale "setaccia" la rete si propone di prevedere i nostri comportamenti futuri.


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venerdì 19 novembre 2010

Menti vaganti

Un recente articolo su Le Scienze online intitolato "La mente che vaga rende infelici" ha recensito uno studio di Matthew A. Killingsworth e Daniel T. Gilbert della Harvard University in cui sembrerebbe che ci sia una correlazione tra la tendenza della mente umana alla "divagazione" e l'infelicità.
Ben il 46,9% del tempo di veglia degli intervistati sarebbe stato impiegato a pensare a qualcosa di diverso rispetto a quello che stavano facendo e questo risultato è stato associato ad un rischio di infelicità nell'ipotesi che pensare al "qui e ora" dovrebbe essere sinonimo di soddisfazione, come quando ad esempio si fa l'amore.
Ci si potrebbe chiedere allora se la nostra "tendenza all'infelicità" non possa essere una conseguenza della struttura della mente, che per quanto tentiamo di "governare" quotidianamente nelle attività che compiamo alla fine sembrerebbe che faccia decisamente tutt'altro andandosene spesso e volentieri a "fantasticare" per i fatti suoi.
Ma quale è la struttura della mente? Esiste una struttura precisa e codificata? E che relazioni ci sono tra questa ipotetica struttura e la coscienza?
Il tema, come ben sappiamo, è dei più spinosi perché parlare di "struttura della mente" ci pone di fronte intanto ad un problema ancora molto dibattuto, ossia cosa é la mente e che rapporti ci sono fra mente e cervello.
Parlare di mente e cervello presuppone già una sorta di "divisione" a priori fra la componente neurobiologica, ossia il cervello, ed una componente che in genere definiamo come psichica e che non sembrerebbe essere completamente riducibile a quell'ammasso molle, detto anche "wetware" in analogia con l'hardware dei computers, che è il cervello.
In filosofia della mente il problema dell'identità o meno fra cervello e mente è una questione a dir poco cruciale e ci sono svariati approcci che vanno dal riduzionismo fisicalista più radicale (identità fra cervello e mente, inesistenza dei qualia o stati coscienti soggettivi e delle rappresentazioni mentali, come ad es. nel connessionismo di Patricia e Paul Churchland o di Avshalom C. Elitzur) a forme di fisicalismo (o materialismo)  che tentano di distaccarsi dal riduzionismo con ipotesi anche molto diverse come quelle all'interno del funzionalismo (es. funzionalismo computazionalista di Jerry Fodor che si basa sulla natura simbolica del mentale che sopravviene al substrato neurobiologico e che ammette la realtà dei qualia e delle rappresentazioni mentali) o del cosiddetto emergentismo (la mente è una proprietà emergente del cervello, come ad esempio nell'approccio neurofenomenologico di Francisco Varela) fino a forme di vero e proprio dualismo ontologico fra mente e cervello in cui si ritiene che i principi della fisica e della biologia non siano in grado di spiegare la mente e le sue proprietà (la realtà della mente sarebbe in questo caso del tutto metafisica).
Nell'articolo "The character of consciousness" del blog Conscious Entities, che recensisce l'omonimo ultimo libro di David Chalmers (la cui "extended mind" del 1998 scritta assieme ad Andy Clark è stata tradotta per la prima volta in Italia nell'ultimo numero di Micromega 7/2010), si parla dell'annoso problema dei "neural correlates of consciousness" (NCC) e l'autore del blog a mio parere fa un bell'esempio quando dice:

"While some simple correspondences between neural activity and specific one-off experiences have long been well evidenced,  I’m pessimistic myself about the possibility of NCCs in any general, useful form.  I doubt whether we would get all that much out of  a search for the alphabetic correlates of narrative, though we know that the alphabet is in some sense all you need, and the case of neurons and consciousness is surely no easier."


Le lettere dell'alfabeto sono i "mattoni elementari" del linguaggio con i quali si costruisce ogni tipo di espressione e di "narrativa", ma non possiamo desumere dai mattoni che tipo di edifici possano venir fuori essendo la loro combinazione imprevedibile in maniera intrinseca e radicale: ne può uscir fuori un libro di poesie stupendo o un racconto decisamente noioso (a proposito, quale è il correlato neurale di "noioso"?...). La ricerca puntuale dell'identità dei correlati neurali con gli stati mentali è un pò come (l'inutile) ricerca dei correlati alfabetici della narrativa: resta il fatto che quest'ultima è "intrinsecamente irriducibile" alle singole lettere.
Ecco perché il tentativo di trovare una forma di identità fra livello neurobiologico e livello mentale-cosciente è in realtà l'idea di una "forma di identità ingenua di una corrispondenza biunivoca fra i due livelli e bisognerebbe piuttosto concludere che ad un livello descritto da un linguaggio cognitivo simbolico (livello "mentale", nda) non corrispondono gli stessi stati sub-simbolici (neurobiologici, nda). Quello che succede nel cervello è incomparabilmente più complesso e perciò i correlati neurali non andrebbero visti come semplici costituenti delle produzioni simboliche, ma piuttosto come un insieme di risorse che si attivano in risposta agli stimoli dell'ambiente e ricostruiscono ogni volta in maniera diversa risposte immagazzinate che noi descriviamo attraverso un modello simbolico dietro il quale c'è un'attività complessa ed opaca di continua emergenza a livello neuronale. In altre parole, un concetto può essere richiamato da situazioni che corrispondono a correlati neurali legati a dinamiche molto diverse fra loro" (Licata, 2008).

Se accettiamo il paradigma, invece, della mente come sistema complesso ed emergente dal cervello nel quale dunque esisterebbe una forma di "organizzazione multi-codice" delle connessioni neurali (sub-simboliche e simboliche con relative logiche differenti e irriducibili), possiamo immaginare che la struttura della mente di cui parlavamo sia non solo sintattica e computazionale (si parla di computazione naturale e analogica), ma semantica e rappresentazionale con la capacità di tipo "poietica" di sempre nuovi significati.
Un modello che sembra essere fecondo in tal senso è quello dell'apertura logica (i sistemi logicamente aperti sono in generale quelli "metastabili" e "lontani dall'equilibrio grazie a processi energetici molto complessi di feedback non lineari che contrastano la tendenza all'aumento dell'entropia e in cui dunque la chiusura logica salta perchè l'informazione necessaria per descrivere il comportamento non è interamente disponibile all'osservatore (Licata, 2008)").

L'idea è quindi che il sistema cervello-mente si trovi in una sorta di continuo stato "stocastico" (in cui le attività cognitive sono intimamente accoppiate alla interazione con l'ambiente e con sé stesso in maniera probabilistica) e anche di "indeterminazione semantica" in quanto è sostanzialmente imprevedibile "descrivere con un modello dell'osservatore (vds. Licata, ib.) la complessità del comportamento del sistema osservato" (cosa penseremo fra un minuto? E come diremo domani una cosa che abbiamo studiato ora? Che parole useremo e che idee ci verranno?).

Ne conseguirebbe che la struttura della mente sarebbe per sua natura tendente alla divagazione di cui parlavamo all'inizio di questo post e che pertanto è l'elevato grado di apertura logica della mente umana che la rende in qualche modo "apparentemente illogica" e tendente a quello "stato di infelicità" che scaturirebbe dal non "essere focalizzata nel presente".


Ovviamente c'è un risvolto positivo della medaglia: la grande potenzialità creativa che non potremmo avere se non fossimo predisposti all'infelicità, ma anche alla felicità, dalla nostra complessa architettura mentale. Insomma, siamo tutti un pò delle "menti vaganti" e questo stato è di tipo profondamente neurobiologico, ma non è proprio tutto negativo quello che ne esce (o emerge) fuori.
L'importante, però, è forse fare attenzione alle cose che contano davvero e questo è tutto un altro problema e spesso le conseguenze non sono delle migliori.

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Letture consigliate:
Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, La Terza 2010;
Ignazio Licata, La logica aperta della mente, Codice 2008.



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sabato 6 novembre 2010

In teoria non c'è differenza fra teoria e pratica. In pratica si.

Parto da questa famoso aforisma di Yogi Berra - un ex giocatore americano di baseball - per fare una breve riflessione sul rapporto fra pubblico e privato nell'era digitale e dei social network.
Non è un argomento "nuovo" e quindi non affronterò il tema inflazionato, ma mai abbastanza, della privacy. Invece, vorrei soffermarmi sul fenomeno imperante della "messa in scena" del privato sui social network e, in generale, sulle varie applicazioni del Web 2.0 dove ciascuno di noi non esita a raccontare storie e informazioni spesso strettamente personali e ad esporre la parte migliore di sé, non di rado "buonista" e "benpensante".
Lawrence Peter "Yogi" Berra
In genere, il "medium" favorisce un processo psicologico di osservazione emotiva e partecipativa e, come ci accade al cinema, siamo più propensi a versare "lacrime" che non nella realtà, dove spesso regna l'indifferenza se non il cinismo di cui noi tutti siamo parte integrante.
Per tornare al titolo del presente post, il digitale ha operato - amplificando un fenomeno già in atto con la televisione - la rappresentazione "oscena" del privato fino al dilagante fenomeno del "porno 2.0" e dei social network erotici e contestualmente una rappresentazione che definirei "teorica" di questo privato in quanto mediata e quindi rielaborata "ad hoc" per un uso "ludico" e "narcisistico".
Il privato, dunque, irrompe in rete, ma lo fa spesso in maniera "adulterata" e quindi in forma o troppo "sdolcinata" o troppo "hard", laddove la vita - quella fatta di carne e sangue - è invece molto diversa in pratica. La rete sembrerebbe, in tal senso, favorire quindi una rappresentazione "teorica" e "stigmatizzata" della realtà sociale ed individuale rispetto a come è "in pratica", facendo emergere "pentimenti""peccati" e "moralismi" in una forma poco o non del tutto aderente a quello che è ormai il sentire ed il vivere pratico della cosiddetta post-modernità.
E quindi tutti si stupiscono del "bunga bunga" e imprecano contro questo o quel politico che fa festini a luci rosse, senza però rendersi conto che in realtà anche i politici - come noi tutti - stanno "mettendo in scena" il privato, che è però quel privato "teorico" e "adulterato" di cui parlavo prima, funzionale né più né meno ad un uso di "marketing individuale".
Ancora una volta, dunque, il simulacro si confonde con l'originale tanto da non farci più comprendere quale sia l'uno e quale l'altro e tale scenario è sostanzialmente perfetto per tutto ciò che è comunicazione mediatica, sia essa televisiva che digitale sulla rete.
Si delinea, pertanto, una sorta di "schizofrenia da medium" in cui da un lato ci stupiamo di quello che vediamo e ci viene raccontato e dall'altro siamo noi stessi ad essere attori di questo processo "osceno".
Teoria e pratica sembrano coincidere quando la narrazione è mediata, ma nella pratica è tutto molto diverso e sfumato. E probabilmente per molti anche "inconfessabile".
Forse sarebbe il caso di focalizzarsi sulle azioni concrete che singolarmente poniamo in essere, ma qui poi si apre un altro "vaso di Pandora" oltre al problema delle reali possibilità di agire (le azioni che potremmo e dovremmo porre in essere) in maniera efficace.

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