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domenica 30 gennaio 2011

Hofstadter, il carambio e gli anelli nella mente (2ª Parte)

La farfalla di Hofstadter
Dovendo, come sempre, privilegiare la sintesi possiamo dire che il modello emergentista di Douglas Hofstadter si basa prevalentemente sui seguenti punti:

1. Distinzione fra microstati (livello sub-simbolico) dei singoli neuroni e macrostati di pattern complessi neuronali (livello simbolico), che emergono dai primi attraverso l'auto-organizzazione ed hanno un significato in genere linguistico-simbolico completamente innovativo rispetto al livello sottostante;
2. La metafora che esemplifica la distinzione fondamentale fra i due livelli di organizzazione è quella del carambio, un ingegnoso tavolo da biliardo che vi descriverò a breve;
3. Nel nostro cervello esistono molteplici livelli di causalità che sono relativi ai diversi livelli di osservazione "micro" e "macro";
4. La nostra mente funziona secondo loop a feedback ricorsivo, la cui metafora matematica è quella della funzione iterativa ricorsiva, come ad esempio il frattale di Mandelbrot. In tale metafora, occorre immaginare la potenzialità tipica della nostra mente di porre in essere un regresso all'infinito;
5. Il loop iterativo, che da' luogo a pattern emergenti, è garantito da un fenomeno che Hofstadter chiama locking in o "ingaggio permanente" e che possiamo metaforicamente assimilare alla dinamica dei feedback audio (immaginiamo quando l'audio ha il fenomeno del "ritorno") e video (una camera che filma attraverso uno "specchio" e da' luogo ad una immagine iterativa in uno schermo Tv) ;
6. In tale quadro, quello che noi chiamiamo coscienza ed auto-coscienza è un processo complesso di tali loop iterativi fino a che emerge un loop auto-osservativo;
7. Nel modello di Hofstadter, come vedremo, rivestono notevole importanza i teoremi di Godel di incompletezza di qualsiasi sistema matematico assiomatico in quanto essi stessi sono una metafora del funzionamento della nostra mente che procede ad attribuire nuovi significati a codici apparentemente definitivi;
8. Non esiste alcun libero arbitrio, in quanto tutti i processi mentali sono rigorosamente processi fisici;
9. Quelli che in filosofia della mente sono detti qualia, al pari di quanto asserisce Daniel Dennett, sono per Hofstadter delle mere illusioni da un punto di vista scientifico, ossia non hanno una influenza oggettiva nei nostri processi coscienti.
10. Hofstadter attribuisce, invece, fondamentale importanza per la nascita dell'Io ai rapporti emotivi ed affettivi.


Una grande dote di Douglas Hofstadter, che come tutte le doti non tutti apprezzano, è quella di creare metafore ed analogie davvero incredibili ed al tempo stesso illuminanti del suo pensiero e quella del carambio come metafora del sistema cervello-mente è una di queste, diciamo la principale.
La lascio descrivere a lui:
"Immaginate un elaborato tavolo da biliardo privo di attrito con sopra miriadi di minuscole sferette chiamate 'sim' (acronimo di sferette interagenti miniaturizzate). Queste sim sbattono l'una contro l'altra e rimbalzano sulle pareti, carambolando qui e là all'impazzata nel loro mondo perfettamente piatto - ed essendo questo privo di attrito, continuano appunto a carambolare e carambolare, senza mai fermarsi. Fin qui il nostro sistema ricorda molto da vicino un gas perfetto bidimensionale, ma ora  postuleremo un pò di complessità in più. Le sim sono anche magnetiche (passiamo dunque a 'simm' con la m in più per 'magnetiche') e, quando si scontrano a velocità relativamente basse, possono rimanere attaccate formando dei grossi grappoli o cluster che per brevità chiamerò 'simmbili', essendo un pò come grosse biglie fatte di simm. Un simmbilo consiste di un numero molto elevato di simm (mille, un milione, non importa) e sul suo strato esterno perde di frequente alcune simm acquistandone altre. Ci sono così due tipi estremamente diversi di oggetti residenti in questo sistema: minuscole, leggere, sfreccianti simm e giganteschi, pesanti, quasi immobili simmbili. Le dinamiche che si creano su questo tavolo da biliardo che d'ora in poi chiameremo 'carambio' coinvolgono dunque delle simm che urtano violentemente le une contro le altre e anche contro i simmbili. Senza dubbio, i dettagli della fisica comprendono trasferimenti di quantità di moto, momento angolare, energia cinetica ed energia rotazionale, proprio come in un gas standard, ma noi non ce ne occuperemo affatto, visto che questo è un esperimento solo con il pensiero (...) Perché lo scontato gioco di parole con 'simbolo'? Perché ora aggiungerò un pizzico di complessità in più al nostro sistema. Le pareti verticali che costituiscono i confini del sistema reagiscono in modo sensibile agli eventi esterni (per esempio, qualcuno che tocca l'esterno del tavolo o anche un soffio di vento) flettendosi per un attimo verso l'interno. Questa flessione, la cui natura conserva alcune tracce dell'evento causale esterno, influisce ovviamente sui movimenti delle simm che, all'interno, rimbalzano via da quel tratto di parete e indirettamente questo verrà registrato anche nei movimenti lenti dei simmbili più vicini, consentendo perciò ai simmbili di internalizzare l'evento. Possiamo presupporre che un particolare simmbilo reagisca sempre in una qualche maniera standard alla brezza, in un'altra ai colpi di vento improvvisi e così via. Senza entrare nei dettagli, possiamo anche presupporre che le configurazioni dei simmbili riflettano la storia degli eventi del mondo esterno che hanno impattato sul sistema. In breve, per qualcuno che guardasse i simmbili e sapesse come leggere la loro configurazione, i simmbili sarebbero simbolici, nel senso di codificanti eventi. Ecco il perché dello scontato gioco di parole. Senza dubbio questa immagine è improbabile e stravagante, ma tenete presente che il carambio è inteso soltanto come un'utile metafora per comprendere i nostri cervelli e il fatto è che i nostri cervelli sono anch'essi piuttosto improbabili e stravaganti, nel senso che anch'essi contengono eventi minuscoli (scariche neuronali) ed eventi più grandi (pattern di scariche neuronali) e questi ultimi hanno presumibilmente in qualche modo qualità rappresentazionali, permettendoci di registrare nonché tenere a mente cose che accadono all'esterno dei nostri crani."


Hofstadter, poi, aggiunge l'evoluzione e la sua pressione attraverso la selezione naturale come ulteriore fattore determinante della struttura dei carambi. A questo punto, direi, che la metafora del carambio-cervello è alquanto chiara ed esemplificativa con tutti i suoi elementi, ambiente esterno compreso: sorge la domanda di come interpretare il funzionamento del carambio e delle sue simm e dei suoi simmbili.
Un riduzionista tenterà di interpretare il carambio in funzione delle sole simm (i neuroni) e considererà i simmbili (i pattern) dei meri epifenomeni senza alcun valore essenziale ai fini della spiegazione del carambio, ma tale approccio anzichè semplificare la spiegazione stessa si dimostra da subito generatore di un enorme ed incontrollata complessità rispetto ad un approccio emergentista, che invece allarga lo zoom dalle simm ai simmbili (dal livello micro/sub-simbolico a quello macro/simbolico) e tenta di spiegarne il funzionamento indipendentemente dalle singole simm.
A tal proposito Hofstadter scrive che:
"D'altronde, se considerando gli eventi al livello degli epifenomeni (il livello simbolico, nda) è possibile percepirne e comprenderne una 'logica', allora noi umani non desideriamo altro che balzare a quel livello. Di fatto, non abbiamo scelta. (...) Dopotutto noi stessi epifenomeni belli e grossi e, come ho già più volte osservato, questo fatto ci condanna a parlare del mondo in termini di altri epifenomeni che si collocano più o meno al nostro livello dimensionale."


Dunque, noi esseri umani viviamo in una precisa scala fisica dimensionale e per noi non ha alcun rilievo cosa fa il singolo neurone quando parliamo, ad esempio, dell'ultimo disco del nostro gruppo rock preferito con un amico. Per noi hanno importanza le parole e la musica (e non le frequenze dei suoni).
Pertanto, come dice Hofstadter, non abbiamo alcuna scelta circa la nostra dimensione esistenziale e quindi cercare la "logica dei simmbili" è una soluzione epistemologica che appare più conforme alle nostre esigenze oltre al fatto che ci "salva" da una iper-complessità ingestibile.
Ma quale è la logica dei simmbili, ossia la logica dei pattern neuronali? Secondo il nostro tale logica è quella del feedback ricorsivo che consente l'attivazione di loop iterativi che portano fino al simmbilo per eccellenza che è il loop auto-osservativo, ossia quello che noi chiamiamo Io o coscienza.
In sostanza, per Hofstadter la coscienza è un simbolo e tra i simboli è quello al quale siamo molto probabilmente più attaccati.

Infatti, Hofstadter afferma che:
"Tra le innumerevoli migliaia di simboli che fanno parte del repertorio di un normale essere umano, ce ne sono alcuni di gran lunga più frequenti e dominanti di altri e uno di essi prende, un pò arbitrariamente, il nome di 'Io' (almeno nella nostra lingua).  Quando parliamo di altre persone, lo facciamo in termini di cose quali le loro ambizioni, abitudini, avversioni, e quindi abbiamo bisogno di formulare per ognuno di loro l'analogo di un Io, che risiederà naturalmente nel loro cranio e non nel nostro. (...) Il processo di percezione del proprio sè nella sua interazione con il resto dell'universo (...) continua per tutta la vita. Ne segue che il simbolo dell'Io, come tutti i simboli del nostro cervello, parte piuttosto semplice e scarno, ma poi cresce e cresce e cresce, fino a diventare la struttura astratta più importante fra quelle che risiedono nei nostri cervelli. Ma dove esattamente? Non è localizzato in un piccolo punto: è sparso ovunque, perché deve contenere così tante cose su così tante cose."


Da questo passo, inoltre, deduciamo la funzione relazionale essenziale che ha il simbolo dell'Io, in quanto esso serve a distinguere il sé dagli altri ed a comunicare con i nostri simili. Il simbolo dell'Io, pertanto, ha una vera e propria funzione biologica di sopravvivenza e sociale di relazione.
Infine, il simbolo dell'Io (o lo strano anello emergente che noi chiamiamo Io) non è in uno specifico punto del nostro cervello, ma è distribuito al suo interno (quindi secondo Hofstadter non abbiamo alcun "elaboratore centrale" come invece asserisce Jerry Fodor e con lui i cognitivisti classici).
Ma come si risolve la causalità mentale con le simm e i simmbili del carambio?
Ne parleremo nel prossimo post.

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sabato 15 gennaio 2011

La causalità mentale (2ª Parte)

Esaminiamo brevemente le soluzioni filosofiche alla sovradeterminazione causale che emerge dall'analisi di Jaegwon Kim e di cui si è parlato nel precedente post.
Il problema, lo ripetiamo, è quello di dimostrare (o meno) l'esistenza di una realtà mentale che può causare stati fisici rispettando il principio di chiusura causale del mondo fisico o dimostrare una dicotomia e, quindi, leggi diverse ed irriducibili per gli stati mentali rispetto a quelli fisici in cui esiste, però, una causalità del mondo mentale su quello fisico.


1. Monismo anomalo: è la posizione di Donald Davidson che non distingue fra stati mentali e stati fisici, ma che prevede che allo stesso evento possano corrispondere due diverse descrizioni. In tal senso, si parla di identità di occorrenza (i "tokens" di cui parlavamo nel post precedente) e la posizione metafisica che prevale è quella materialista, mentre è il linguaggio che da' luogo ad un dualismo che non è realmente tale. Per Davidson il mentale non è un mondo di fatti ma un mondo di norme (normatività del mentale) ed è intrinsecamente olistico (coesistenza di una moltitudine di stati mentali), per cui non è possibile ridurre tale struttura ad una spiegazione fisica. Fondamentale in Davidson è la distinzione fra relazione causale e spiegazione causale, che serve a difendere la sua posizione dalla critica di epifenomenismo del mentale. Pertanto, "un evento è quello che è e le sue proprietà causali non dipendono da come lo descriviamo, in un vocabolario mentale piuttosto che fisico. In questo senso non c'è mistero che un evento individuato mentalmente possa essere una causa" (Paternoster, 2010).
Il mondo mentale sarebbe, dunque, lo stesso mondo fisico osservato da un'altra prospettiva e non ci sarebbe un dualismo delle proprietà. Questa posizione è di tipo materialista e non riduzionista, ma si presta alla sostanziale critica del postulato di identità fra mentale e fisico e della contestuale irriducibilità (l' inspiegabile "anomalia del mentale").

2. Monismo nomologicoinnanzitutto gli stati mentali sopravvengono su quelli fisici e c'è identità di occorrenza fra i due. E' Jerry Fodor a sostenere questa posizione in cui ancora una volta è fondamentale il significato che si attribuisce al concetto di causalità. In particolare, secondo Fodor ci sono delle vere e proprie leggi psicologiche (cioè mentali) che non hanno nulla a che fare con il vocabolario delle scienze della natura (così come l'impetuosità di un fiume è una sua proprietà ma non é descrivibile in un vocabolario fisico) e pertanto è uno pseudo-problema cercare delle leggi ponte fra lo stato mentale e quello fisico, pur essendoci sopravvenienza e identità di occorrenza, come dicevamo poco sopra.
Fodor con la sua posizione difende la liceità di leggi causali nell'ambito delle cosiddette scienze speciali come la psicologia. Il modello di Fodor prevede una "causalità epistemologica" piuttosto che metafisica o nomologico-deduttiva: "l'enfasi è posta sulla spiegazione e sulla previsione, senza richiedere l'esistenza di una presunta relazione oggettiva fra oggetti o eventi" (Paternoster, cit.).
Anche Fodor, però, si è visto costretto a precisare meglio il concetto di causalità e lo ha fatto distinguendo fra efficacia causale, tipica del mondo fisico, e responsabilità causale che caratterizzerebbe il mondo mentale.
Si verrebbe, in tale quadro, a proporre una forma di sopravvenienza fra nessi causali, ossia la responsabilità causale sopravverrebbe sull'efficacia causale. E' evidente che tale posizione non risolve il problema della sovradeterminazione causale, ma si appella ad una non necessità di porre un problema di questo tipo così come non sarebbe evidente l'esistenza di leggi ponte fra fisica e chimica o tra biologia e chimica e quindi la loro stretta identità.


3. Deflazionismo: rappresentanti autorevoli di questo approccio sono Lynne Ruder Baker e Tyler Burge per i quali la nozione di causa è di tipo puramente intenzionale e pertanto bisogna fare riferimento al concetto di scopo dei singoli soggetti. Ne consegue che la spiegazione del concetto di causa è strettamente correlata a quello di scopo e di contesto di un discorso e quindi è rilevante la sola domanda controfattuale in cui ci si chiede "se A non avesse avuto luogo, ceteris paribus B non avrebbe avuto luogo" (Paternoster, cit.). Il presente approccio è di tipo anti-funzionalista e anche di tipo anti-naturalistico sui generis, in quanto pur riconoscendo la causalità degli stati mentali non ravvede alcuna possibilità di spiegarla con un vocabolario fisico negando la stessa sopravvenienza del mentale sul fisico. Per gli appartenenti a questo tipo di approccio, il mentale non è in alcun modo uno stato computazionale né descrivibile come dicevamo con una teoria fisica essendo caratterizzato da una logica completamente diversa.  Anche per i deflazionisti, dunque, il problema della sovradeterminazione causale è mal posto e dunque non è un  problema.
Ci sarebbero, dunque, due diversi tipi di cause e pertanto "il senso in cui gli stati mentali sono causa degli stati fisici non è lo stesso di quello per cui un evento fisico ha una ed una sola causa sufficiente" (Paternoster, cit.). La strategia deflazionista consiste proprio nel depotenziamento della nozione di causa all'interno del principio di chiusura causale del mondo fisico.

4. Neo-riduzionismo: accetta l'idea della sovradeterminazione causale. E' quello proposto dal citato Jaegwon Kim, che identifica le proprietà mentali con quelle fisiche, fatta eccezione per l'ammissione dell'esistenza dei qualia che sono considerati come epifenomeni senza rilevanza causale. E' una forma di funzionalismo riduzionista che però si presta alla critica dell'identità fra M (proprietà mentale) e P (proprietà fisica), cioè alla difficile concepibilità dell'ipotesi che ogni volta che si verifica uno stato M esso abbia la stessa identica proprietà fisica P (Kim ammette la realizzabilità multipla, ossia che ci possano essere più realizzatori fisici P1, ..., Pn a parità di M, ma essi saranno sempre gli stessi relativamente a M).

Un'altra forma di neo-riduzionismo, anche se non tutti saranno d'accordo in quanto dipende da come vengono utilizzate nell'ambito di un modello, è quello delle reti neurali (modelli connessionisti e neo-connessionisti) di cui parlerò in futuro e di cui ho già accennato in altri post (vedi qui).

Come si può notare da quanto detto, nell'affrontare il problema della sovradeterminazione causale è fondamentale precisare il concetto di causa, quello di proprietà e quello di identità da cui dipende il modo di "risolvere" il problema mente-corpo. Se si da' al concetto di causa e di proprietà quello tipico del fisicalismo è quasi inevitabile approdare al neo-riduzionismo o all' eliminativismo, se si depotenzia il concetto di causa si può arrivare fino a forme di deflazionismo anti-naturalista o di vera e propria metafisica della coscienza basata su leggi completamente diverse da quelle fisiche.
Nel caso di leggi e quindi di proprietà diverse si parla di dualismo delle proprietà (ad es. quello di David Chalmers per la coscienza fenomenica), mentre invece nel caso di un approccio che considera il mentale irriducibile agli stati neurobiologici si parla di dualismo epistemologico che si accompagna ad un monismo ontologico (cioè esiste comunque alla base una dipendenza ontologica del mentale dal fisico, ma esiste altresì una descrizione diversa dovuta a modelli epistemologici differenti).
L'emergentismo, ad esempio quello di Douglas Richard Hofstadter e del suo "Anelli nell'Io" (2007), è un approccio che incorre in un dualismo epistemologico all'interno di un monismo ontologico in cui la coscienza diventa una proprietà emergente, che Hofstadter chiama (secondo me impropriamente) epifenomeno, anche se le conferisce un potere causale nell'ambito di un processo ricorsivo. Per Hofstadter quello che noi chiamiamo Io è infatti una "illusione", così come ciò che chiamiamo libero arbitrio assolutamente non esiste.
Ne parleremo nel prossimo post.

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giovedì 6 gennaio 2011

La causalità mentale (1ª Parte)

Vi propongo un piccolo "rompicapo" di filosofia della mente relativo alla causalità mentale, che ho da poco proposto su Facebook. Vediamo cosa ne pensate e come cercate di risolverlo, nel senso di quale posizione preferite assumere, per cui sono graditi commenti.
Inoltre, proporrò sinteticamente nel prossimo post i possibili modi in cui in filosofia della mente si è cercato di rispondere a questo problema.
Il rompicapo è più o meno questo:
immaginiamo di voler dimostrare che esista una realtà mentale in grado di agire su una realtà fisica neurobiologica attraverso la volontà (chiamiamola in prima battuta libero arbitrio). Ciò significa ipotizzare che uno stato mentale debba poter avere una "causalità verso il basso" (top-down), dove il basso è rappresentato dal substrato fisico e biologico del cervello e l'alto dalla mente come proprietà superiore del cervello.
Intanto, occorre fare una prima serie di precisazioni:

1. Bisogna rispettare il principio di chiusura causale del mondo fisico (ossia che in un mondo materiale non possono esserci cause non materiali degli eventi fisici);

2. Se si rifiuta il predetto principio, bisogna postulare che la mente non soggiace alle leggi fisiche e spiegare perché.

Come strumenti concettuali che avete a disposizione, oltre a quelli che vorrete adottare, suggerisco:

I) Approccio emergentista: famiglia di teorie il cui denominatore comune può essere definito dalla tesi secondo la quale i sistemi fisici che hanno una certa complessità di organizzazione danno luogo a proprietà mentali (o in generale a proprietà di alto livello) che non possono tuttavia né essere previste né spiegate sulla base delle sole proprietà fisiche di basso livello. Le proprietà emergenti sono tipicamente considerate l'esito di processi di auto-organizzazione in sistemi complessi (Paternoster, 2010).

II) Approccio basato sul concetto di sopravvenienza: le proprietà mentali sopravvengono alle proprietà fisiche se e solo se una identità di tipo fisico implica una identità di tipo mentale, ovvero a qualche differenza mentale fa sempre riscontro una differenza fisica. La sopravvenienza del mentale sul fisico corrisponde alla congiunzione di tre tesi: dipendenza del primo dal secondo, covarianza (immaginate una co-evoluzione) del fisico con il mentale, non riducibilità del mentale al fisico (Paternoster, 2010).

Nell' immagine  è riportato l'argomento dell'esclusione causale sul quale si basa l'approccio neo-riduzionista proposto da Jaegwon Kim (che comunque non nega l'esistenza dei qualia pur non attribuendo loro un'efficacia causale), in cui nel caso a) si vede che la causalità mentale (M----> M*) sul comportamento è epifenomenica rispetto allo stesso, cioè è ininfluente rispetto a quella fisica.
Nel caso b) si verifica la sovradeterminazione causale, ossia che due cause - M, quella mentale, e P quella fisica - determinano la stessa proprietà fisica P*. Si supponga che m e m* siano le occorrenze mentali ("tokens", ossia le manifestazioni mentali concrete o contingenti) relative alle proprietà mentali M ("avere fame") e M* ("aprire il frigo e prendere un dolce") e p e p* siano i "realizzatori fisici" (processo bio-fisico, nel caso in esame di tipo neurobiologico) di m e m* e che quindi p -----> m e p*-----> m*. Ovviamente, P è la proprietà fisica di "avere fame" e P* quella di "aprire il frigo e prendere un dolce".

Come possiamo allora dimostrare che la mente può causare eventi fisici (immaginiamo l'azione causale da un livello più alto ad uno più basso), evitando di essere totalmente riduzionisti o eliminativisti (negando la realtà mentale, che si considera "zippabile" in leggi fisiche e biologiche) o di cadere in forme di dualismo? Ovviamente, si può dire di essere totalmente riduzionisti (la mente è identica al cervello o ancora che proprio non esiste una "mente") o assolutamente dualisti (mentale e fisico-cerebrale sono irriducibili e hanno leggi completamente diverse) e giustificare il perchè.

Aggiungo che m e m* possiamo approssimarli ai cosiddetti qualia, ossia gli stati soggettivi della coscienza fenomenica (le cui proprietà sono M e M*) che secondo alcuni filosofi della mente sono irriducibili ad una descrizione scientifica (ad es. lo stesso dato sensoriale - il rosso della rosa o l'aver fame dell'esempio - verrebbe percepito in maniera radicalmente diverso da ognuno di noi).
Per chi volesse leggere i commenti su FB il link è questo qui.

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venerdì 19 novembre 2010

Menti vaganti

Un recente articolo su Le Scienze online intitolato "La mente che vaga rende infelici" ha recensito uno studio di Matthew A. Killingsworth e Daniel T. Gilbert della Harvard University in cui sembrerebbe che ci sia una correlazione tra la tendenza della mente umana alla "divagazione" e l'infelicità.
Ben il 46,9% del tempo di veglia degli intervistati sarebbe stato impiegato a pensare a qualcosa di diverso rispetto a quello che stavano facendo e questo risultato è stato associato ad un rischio di infelicità nell'ipotesi che pensare al "qui e ora" dovrebbe essere sinonimo di soddisfazione, come quando ad esempio si fa l'amore.
Ci si potrebbe chiedere allora se la nostra "tendenza all'infelicità" non possa essere una conseguenza della struttura della mente, che per quanto tentiamo di "governare" quotidianamente nelle attività che compiamo alla fine sembrerebbe che faccia decisamente tutt'altro andandosene spesso e volentieri a "fantasticare" per i fatti suoi.
Ma quale è la struttura della mente? Esiste una struttura precisa e codificata? E che relazioni ci sono tra questa ipotetica struttura e la coscienza?
Il tema, come ben sappiamo, è dei più spinosi perché parlare di "struttura della mente" ci pone di fronte intanto ad un problema ancora molto dibattuto, ossia cosa é la mente e che rapporti ci sono fra mente e cervello.
Parlare di mente e cervello presuppone già una sorta di "divisione" a priori fra la componente neurobiologica, ossia il cervello, ed una componente che in genere definiamo come psichica e che non sembrerebbe essere completamente riducibile a quell'ammasso molle, detto anche "wetware" in analogia con l'hardware dei computers, che è il cervello.
In filosofia della mente il problema dell'identità o meno fra cervello e mente è una questione a dir poco cruciale e ci sono svariati approcci che vanno dal riduzionismo fisicalista più radicale (identità fra cervello e mente, inesistenza dei qualia o stati coscienti soggettivi e delle rappresentazioni mentali, come ad es. nel connessionismo di Patricia e Paul Churchland o di Avshalom C. Elitzur) a forme di fisicalismo (o materialismo)  che tentano di distaccarsi dal riduzionismo con ipotesi anche molto diverse come quelle all'interno del funzionalismo (es. funzionalismo computazionalista di Jerry Fodor che si basa sulla natura simbolica del mentale che sopravviene al substrato neurobiologico e che ammette la realtà dei qualia e delle rappresentazioni mentali) o del cosiddetto emergentismo (la mente è una proprietà emergente del cervello, come ad esempio nell'approccio neurofenomenologico di Francisco Varela) fino a forme di vero e proprio dualismo ontologico fra mente e cervello in cui si ritiene che i principi della fisica e della biologia non siano in grado di spiegare la mente e le sue proprietà (la realtà della mente sarebbe in questo caso del tutto metafisica).
Nell'articolo "The character of consciousness" del blog Conscious Entities, che recensisce l'omonimo ultimo libro di David Chalmers (la cui "extended mind" del 1998 scritta assieme ad Andy Clark è stata tradotta per la prima volta in Italia nell'ultimo numero di Micromega 7/2010), si parla dell'annoso problema dei "neural correlates of consciousness" (NCC) e l'autore del blog a mio parere fa un bell'esempio quando dice:

"While some simple correspondences between neural activity and specific one-off experiences have long been well evidenced,  I’m pessimistic myself about the possibility of NCCs in any general, useful form.  I doubt whether we would get all that much out of  a search for the alphabetic correlates of narrative, though we know that the alphabet is in some sense all you need, and the case of neurons and consciousness is surely no easier."


Le lettere dell'alfabeto sono i "mattoni elementari" del linguaggio con i quali si costruisce ogni tipo di espressione e di "narrativa", ma non possiamo desumere dai mattoni che tipo di edifici possano venir fuori essendo la loro combinazione imprevedibile in maniera intrinseca e radicale: ne può uscir fuori un libro di poesie stupendo o un racconto decisamente noioso (a proposito, quale è il correlato neurale di "noioso"?...). La ricerca puntuale dell'identità dei correlati neurali con gli stati mentali è un pò come (l'inutile) ricerca dei correlati alfabetici della narrativa: resta il fatto che quest'ultima è "intrinsecamente irriducibile" alle singole lettere.
Ecco perché il tentativo di trovare una forma di identità fra livello neurobiologico e livello mentale-cosciente è in realtà l'idea di una "forma di identità ingenua di una corrispondenza biunivoca fra i due livelli e bisognerebbe piuttosto concludere che ad un livello descritto da un linguaggio cognitivo simbolico (livello "mentale", nda) non corrispondono gli stessi stati sub-simbolici (neurobiologici, nda). Quello che succede nel cervello è incomparabilmente più complesso e perciò i correlati neurali non andrebbero visti come semplici costituenti delle produzioni simboliche, ma piuttosto come un insieme di risorse che si attivano in risposta agli stimoli dell'ambiente e ricostruiscono ogni volta in maniera diversa risposte immagazzinate che noi descriviamo attraverso un modello simbolico dietro il quale c'è un'attività complessa ed opaca di continua emergenza a livello neuronale. In altre parole, un concetto può essere richiamato da situazioni che corrispondono a correlati neurali legati a dinamiche molto diverse fra loro" (Licata, 2008).

Se accettiamo il paradigma, invece, della mente come sistema complesso ed emergente dal cervello nel quale dunque esisterebbe una forma di "organizzazione multi-codice" delle connessioni neurali (sub-simboliche e simboliche con relative logiche differenti e irriducibili), possiamo immaginare che la struttura della mente di cui parlavamo sia non solo sintattica e computazionale (si parla di computazione naturale e analogica), ma semantica e rappresentazionale con la capacità di tipo "poietica" di sempre nuovi significati.
Un modello che sembra essere fecondo in tal senso è quello dell'apertura logica (i sistemi logicamente aperti sono in generale quelli "metastabili" e "lontani dall'equilibrio grazie a processi energetici molto complessi di feedback non lineari che contrastano la tendenza all'aumento dell'entropia e in cui dunque la chiusura logica salta perchè l'informazione necessaria per descrivere il comportamento non è interamente disponibile all'osservatore (Licata, 2008)").

L'idea è quindi che il sistema cervello-mente si trovi in una sorta di continuo stato "stocastico" (in cui le attività cognitive sono intimamente accoppiate alla interazione con l'ambiente e con sé stesso in maniera probabilistica) e anche di "indeterminazione semantica" in quanto è sostanzialmente imprevedibile "descrivere con un modello dell'osservatore (vds. Licata, ib.) la complessità del comportamento del sistema osservato" (cosa penseremo fra un minuto? E come diremo domani una cosa che abbiamo studiato ora? Che parole useremo e che idee ci verranno?).

Ne conseguirebbe che la struttura della mente sarebbe per sua natura tendente alla divagazione di cui parlavamo all'inizio di questo post e che pertanto è l'elevato grado di apertura logica della mente umana che la rende in qualche modo "apparentemente illogica" e tendente a quello "stato di infelicità" che scaturirebbe dal non "essere focalizzata nel presente".


Ovviamente c'è un risvolto positivo della medaglia: la grande potenzialità creativa che non potremmo avere se non fossimo predisposti all'infelicità, ma anche alla felicità, dalla nostra complessa architettura mentale. Insomma, siamo tutti un pò delle "menti vaganti" e questo stato è di tipo profondamente neurobiologico, ma non è proprio tutto negativo quello che ne esce (o emerge) fuori.
L'importante, però, è forse fare attenzione alle cose che contano davvero e questo è tutto un altro problema e spesso le conseguenze non sono delle migliori.

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Letture consigliate:
Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, La Terza 2010;
Ignazio Licata, La logica aperta della mente, Codice 2008.



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