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domenica 13 novembre 2011

L'infinito tra metafisica e scienza (1ª Parte)

Uno dei paradossi più famosi del pensiero greco antico è quello di Zenone di Elea (490-435 a.C.), che ideò una gara singolare fra il veloce Achille e una tartaruga nella quale le "regole del gioco", per così dire, erano basate sul concetto di infinita divisibilità di una grandezza intera e finita.
Immaginiamo quanto segue: ammettiamo che Achille dia alla tartaruga il vantaggio di 100 metri e che la tartaruga proceda ad una velocità di 1 metro al minuto mentre Achille corra ad una velocità di 300 metri al minuto (le velocità e il vantaggio sono ininfluenti, io ho scelto questi, Zenone dimezzava le distanze in successione), nel momento in cui Achille partirà e quando avrà raggiunto il punto iniziale di partenza della tartaruga quest'ultima avrà compiuto - per quanto piccolo - un tratto in avanti. Infatti, nel nostro caso dopo 1/3 di minuto Achille sarà nel punto di partenza della tartaruga, che però avrà percorso 1/3 di metro: iterando la logica del ragionamento accade che Achille non raggiungerà mai la tartaruga perché poi dovrà coprire 1/3 di metro che lo separa dalla tartaruga impiegando 1/15 secondi e quest'ultima nel frangente avrà percorso il tratto in più corrispondente alla formula spazio=velocità*tempo, che nel nostro caso sarà spazio=(1 metro/60 sec.) * (60/900 sec.)= 1/900 metro e così via all'infinito.
Più in generale, siamo di fronte ad una successione che è formata come segue: 1/3, 1/900, 1/270.000, .... ecc. (queste sono in progressione le distanze sempre più piccole che distanzieranno la tartaruga da Achille senza mai essere zero).
Questo paradosso, tale perché in contrasto con l'esperienza sensibile, ha tenuto sotto scacco il pensiero occidentale dai tempi di Zenone - formulabile in maniera discorsiva e più immediata come fece Borges nel seguente modo "Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla" - fino a quando non fu "inventato" (o scoperto, a seconda dei gusti) il concetto di limite nel XVII° secolo (il secolo di Leibniz e di Newton) e si dimostrò che la "serie di Zenone" è in realtà una serie geometrica convergente, che nel caso tipico "zenoniano" (che nel ragionamento originario dimezzava progressivamente le distanze), ossia la serie 1/2, 1/4, 1/8, 1/16, 1/32 ecc., ha come limite la somma finita 2.
Fermiamoci ora a riflettere un pò su come si è passati da un ragionamento, quello di Zenone, che da un punto di vista meramente logico sembrava essere corretto (e in astratto continua ad esserlo ancora oggi), ma in contrasto con l' empiria, ad un altro ragionamento, altrettanto logico, ma stavolta basato sui concetti matematici di serie e di limite, che invece suffragava l'empiria, cioè che Achille supera sempre (ed eccome!) la tartaruga.
Zenone, come tutti i greci, non conosceva né lo zero, né gli infinitesimi, né il concetto di continuo e quindi il concetto di somma convergente ad un limite, ma insinuò - come ben dice nel suo "Tutto, e di più. Storia compatta dell'infinito" (2003) il compianto David Foster Wallace - il ragionamento del "buco nero" del regresso all'infinito all'interno della cultura greca che già aveva un certo sacro "terrore" per to àpeiron (ἄπειρος, -ον, l'illimitato, l'infinito, senza confine ecc.), tanto che Anassimandro lo considerò un "archè" (ἀρχή).

Credit: Il curioso caso di Benjamin Button (2008)
Ápeiron, che, come detto, etimologicamente significa "illimitato", "indeterminato", ma anche "inesauribile", "senza numero" e "infinito", è ciò che non è racchiudibile nè dal "Nome" (Logos) nè dal "Numero" ("arithmos", ma anche la "tà mathemata") e dalla "misura" (metron).
L' Ápeiron è per Anassimandro ciò che abbracciando le cose fornisce ad esse l'essere secondo il tempo e in questo introduce due concetti importanti su cui riflettere: eterno (contrapposto al tempo finito dell'ente) e destino (legato alla necessità secondo la quale le cose tornano ad esso).
Il ragionamento di Zenone è molto insidioso perché, come dicevamo, spalanca le porte al regresso all'infinito e ne conclude che non è possibile né il movimento né lo scorrere del tempo, che pertanto sono solo delle illusioni umane.
Ci penserà Aristotele, contrapposto all'idealismo platonico, a distinguere fra un infinito attuale e un infinito potenziale, o meglio fra attualità e potenzialità, affermando che un "infinito attuale" non è possibile e che pertanto nessuna estensione spaziale è "attualmente infinita", ma lo spazio è solo "potenzialmente infinito" nel senso di potenzialmente divisibile ad infinitum.
La visione aristotelica, attraverso il cristianesimo e quindi la scolastica, sopravviverà fino alla rivoluzione del calcolo differenziale a partire dal XVII° secolo, che aprì le porte ad una trattazione dell'infinito e degli infinitesimi sempre più rigorosa e dove, soprattutto, l'infinito cominciò a imporsi come "grandezza" anche attuale, anche se si dovranno aspettare Dedekind e Cantor per avere una matematica dell'infinito vera e propria.
Tornando alla nostra riflessione iniziale, è interessante notare come sia la visione del mondo di Zenone sia quella contemporanea, basata nel caso di specie sulla matematica dell'infinito e degli infinitesimi, si basi sul pensiero astratto, che dopotutto è una forma di pensiero "metafisico" in quanto  - come detto altrove dove parlavo di mente estesa - è una forma emergente di pensiero, tipicamente umano nelle sue forme più evolute e non riducibile alle mere componenti neurobiologiche in quanto legato anche agli aspetti culturali (la duplicità di aspetto di cui si parlava anche qui).

Convex and Concave (1955), Escher 
Ne consegue che attraverso il pensiero astratto si è determinato nel corso della nostra storia culturale il nostro rapporto con il mondo, laddove per Zenone la logica del regresso all'infinito era un argomento per confutare il divenire al di là di ogni evidenza empirica, mentre per noi è certamente più plausibile ed accettabile, almeno nella questione di cui trattasi, che l'esperienza empirica (che diviene con evidenza) debba essere il banco di prova di una struttura logico-matematica e della sua "fecondità" o "bontà".
Pertanto, "scoprire" l'esistenza dei limiti e delle serie convergenti è stato fondamentale per risolvere il paradosso di Zenone, dunque per affermare con maggiore certezza che la "realtà che osserviamo è vera" e che al tempo stesso non è in contrasto con la logica e con la matematica.
Questo stato di cose è, come si intuisce, molto interessante in quanto mette in luce come il pensiero astratto di tipo rappresentativo sia stato e sia ancora nella nostra cultura fondamentale per "decifrare" il mondo, ma ci pone la domanda di fino a dove esso può descrivere la realtà fino ad "esaurirla", cioè fin dove la logica e la matematica e le loro strutture concettuali astratte siano idonee a spiegare il mondo che osserviamo senza lasciare "eccedenze" inspiegate o addirittura inspiegabili.
Nei prossimi post, attraverso una riflessione sull'infinito ci avventureremo su questi argomenti.

sabato 1 gennaio 2011

Perché parlare di coscienza anche quest'anno

Intanto Buon 2011 a tutti!
Vorrei iniziare questo nuovo anno con una domanda che mi faccio da un pò e che magari qualche lettore di questo blog si sarà fatto: "Perchè parlare di coscienza?", "A cosa serve parlare di coscienza con termini che spesso sono lontani dalla nostra sensazione e dalla nostra idea di quello che la coscienza è o possa essere?", e soprattutto "Se non c'è una risposta chiara e convincente per tutti non sarà poi un discorso poco fecondo?".
In fin dei conti, siamo creature "condannate" a vivere - o forse "premiate" a seconda dei punti di vista - in una dimensione fisica e biologica ben precisa che è quella macroscopica in cui non abbiamo la benché minima percezione di quello che accade dentro il nostro corpo e che pertanto hanno "inventato" un mondo, anzi infiniti mondi, grazie alle capacità evolute ed alla complessità di quello "strano organo" chiamato cervello.
Escher, Specchio Magico (1946)

Non credo che molti si focalizzino più di tanto sul fatto che siamo costituiti da cellule, da un sistema nervoso, da un sistema sanguigno, da atomi, da particelle "elementari" e via dicendo o su quale sia la relazione fra i numeri o gli enti geometrici e la struttura del nostro cervello, mentre é sicuramente vero che viviamo la nostra vita all'interno di un mondo fatto di "cose" (oggetti vari, tecnologie, ecc.), di persone, di esseri viventi, di emozioni, di affetti, di pensieri, di poesia, di arte, di musica, di problemi pratici come il lavoro, i soldi, dove qualcuno si interessa di politica, qualcun altro di finanza ed economia, altri di cose molto più "materiali" ma sempre utili e comunque ben inserite in un ecosistema che è saldamente antropomorfo.

In definitiva, non "serve" a molto sapere cosa c'è "dentro di noi" e cosa c'è "là fuori" se non in termini direttamente correlati alle nostre finalità macroscopiche.
Per questo motivo, i nostri interessi sono essenzialmente interessi macroscopici e tendiamo a trascurare i dettagli, almeno che per qualche motivo non li riteniamo importanti in base a nostre valutazioni soggettive.
Se poi aggiungiamo che ogni volta che la scienza ci da' una spiegazione finisce spesso per "castrare" il mondo (anzi, i mondi) che noi abbiamo costruito e nel quale ci siamo collocati in secoli di evoluzione sociale e culturale, ci rendiamo conto che entrare nei dettagli può essere non solo poco chiaro, ma anche poco conveniente se ci può costringere a dover mettere in discussione la nostra visione complessiva del mondo che abitiamo e di noi stessi.
Dopotutto la nostra esistenza è più o meno saldamente incanalata su binari alquanto "rigidi": lavoro, famiglia, denaro, salute, qualche svago, relazioni sociali e cyber-sociali più o meno intense. E' in e da questo mondo che siamo  "presi", il resto non ci sembra "davvero importante" o comunque immediatamente tale.
Che esistano i quanti, i neuroni o i buchi neri fa poca differenza al fine della nostra vita quotidiana, che sembra proprio essere fatta di tutt'altro, di cose che chiamiamo emozioni, amore, sogni, desideri, piacere, giustizia... Ce lo dicono poi gli stessi scienziati più "illuminati": la scienza non è una tuttologia che può spiegarci ogni cosa, anzi quello che spesso resta fuori della sua portata, stranamente, sono proprio quelle emozioni, quei desideri e quel senso di giustizia di cui è fatta la nostra vita interiore.
In qualche modo, la nostra visione del mondo si (af)ferma ad un "livello di zoom" che è in massima parte a grana molto grossa, anche quando parliamo di sensazioni che ci sembrano esprimere il nostro più profondo sentire e quindi ci sembrano rivestire un grado di verità quasi incontestabile.
Se parliamo in termini fisici, tutto ciò che accade è fatto di una infinità di "particelle" che si combinano ed interagiscono fra di loro, ma ci viene proprio innaturale pensare che quando usciamo la mattina per andare al lavoro in "realtà" siamo "nient'altro" che sciami di particelle che hanno "deciso" di andare a lavorare: ma perché dovrebbero lavorare delle particelle per quanto aggregate complessamente?
Pertanto, la controintuitività della rappresentazione scientifica di ciò che siamo è tale che siamo interessati a ciò che la scienza ci dice nella misura in cui ci può essere utile, ma tendiamo a distaccarcene quando ci parla di quello che c'è nella nostra "scatola nera", ossia il cervello.
Mi spiego meglio: ormai siamo quasi tutti convinti che esistono i geni, che le malattie in qualche modo "misterioso" dipendono da loro, che magari il nostro stesso carattere dipende dai geni, insomma siamo ben disposti a concepire un mondo in cui una buona parte del nostro essere sia dipendente da questo "fantomatico" DNA (semplifico molto, perché in materia ci sono diverse scuole di pensiero e l'epigenetica è una branca in costante progresso), ma se qualcuno ci dice che non abbiamo alcun libero arbitrio e che ogni nostro pensiero è determinato da processi fisici sottostanti, per quanto complessi, allora cominciamo a non essere così convinti e anzi tendiamo a ribellarci all'idea stessa che quella "scatola nera" ci condanni ad essere "ai suoi ordini", per altro la cui natura profonda ci è ignota.

La coscienza diventa, in tal senso, il nostro ultimo baluardo di libertà rispetto ad un mondo materiale che è rigidamente regolato da leggi fisiche. Anzi di più: la coscienza diventa una sorta di patrimonio e rifugio individuale in un mondo regolato non solo da leggi fisiche, ma anche e soprattutto da rigide regole economiche, sociali e politiche.
Ma ne siamo certi? Siamo convinti che la coscienza sia al di fuori delle leggi fisiche? Siamo certi di poter credere nel libero arbitrio? O non si tratta, piuttosto, di una mera illusione del nostro cervello per sopravvivere in quella realtà macroscopica di cui parlavamo?
E se è un'illusione, allora potrebbe significare che le illusioni sono una realtà biologica e quindi fisica? Dopotutto, un'illusione sarà fatta di atomi o di cosa?
La coscienza ci sembra essere la casa della nostra vita morale e quindi delle nostre decisioni esistenziali più profonde (quindi della volontà), ma se è in fin dei conti un'aggregazione complessa di atomi nella nostra testa che si muovono e si combinano "all'impazzata" o con regole la cui dinamica non ha un senso particolare avvertiamo inevitabilmente l'imbarazzo di trovare un qualche punto di contatto fra "quegli atomi" e i "nostri pensieri".
In palio c'è poi ancora di più: la nostra stessa immagine di noi stessi e fino a che punto possiamo averne una che trascenda in toto o solo parzialmente i dati fisici, dicendoci che la scienza e le leggi fisiche non possono spiegarci la natura profonda del nostro io (anche la stessa immagine della scienza è in gioco, se ci riflettiamo, dal problema della co-scienza).
Siamo degli esseri "metafisici" o "fisici" ? O la metafisica è nient'altro che una fisica particolare all'interno dei nostri pensieri meramente fisici, diciamo un insieme molto complesso di pattern di atomi all'interno della "scatola nera"?
Come vedete le domande sono tante e per chi vuole impiegare un pò di atomi all'interno del proprio cervello, direi che abbiamo un altro anno per parlarne e per approfondire!

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sabato 30 ottobre 2010

Corpi disconosciuti

Recentemente ho postato su Facebook una riflessione relativa alle opere di Gunther Von Hagens, il noto anatomista tedesco inventore della tecnica della plastinazione, che vengono esposte in numerose mostre allestite in tutto il mondo. La domanda è stata "Quando la morte è un nuovo messaggio di vita o un vecchio tabu sacro infranto?"
Foto: Reuters, sito: Daylife
Le reazioni a questi corpi "immortalati" nelle più varie e "plastiche" (è il caso di dirlo...) posizioni artistiche sono state, ovviamente, controverse. Si passa da un giudizio estetico associato al "gusto del macabro" sempre più imperante nella nostra società a variegate forme di accettazione o di non accettazione  nei confronti di questa forma "estrema" di arte (per chi la vuole considerare tale) o di rappresentazione "rigenerata" (una nuova "entità" come dice l'autore) del corpo post mortem con finalità - a dire di Von Hagens - di tipo educativo, cioè tese a evidenziare anche in maniera cruda quali possano essere gli effetti sul corpo di stili di vita sbagliati (es. fumo, alcol, ecc.). In generale, i problemi di fondo sono quelli associati al nostro rapporto con la morte, alle credenze di una vita dell'anima dopo la morte, al rispetto per una "sacralità del corpo" che non dovrebbe mai essere profanata. Ora, se è indubbio che il significato della morte è inevitabilmente legato a quello che crediamo potrà accadere dopo la medesima, è interessante indagare il significato che si da' al corpo sia che si supponga che esso ospiti un'anima sia che lo si consideri del tutto "materiale".
Estrapolo, di seguito, alcuni commenti degli amici di Facebook.

Dice Giovanna: "In Cina hanno un corso di Laurea in "Scienze della Morte" (credo si possa tradurre cosi'). E' stato creato da un filosofo per tramandare tutti gli aspetti cerimoniali, culturali e filosofici della morte. Le richieste superano sempre i posti disponibili...
Le opere di Von Hagens le trovo comunque difficilmente sostenibili per un pubblico "profano" del corpo umano"; poi Laura: "Se la nostra società considera la morte come tabù, nel passato l'approccio con essa era di tutt'altra natura. A testimonianza di ciò i testi che ci sono stati tramandati: il libro dei morti egiziano e quello tibetano. Il primo precede di oltre tremila anni il Bardo Thodol (bardo= post morte e Thodol= liberazione mediante lo studio).
Per gli egiziani la morte non era l´ultima tappa , ma la continuazione dell´essere intelligente. La teogonia egizia ha fatto della morte il tema stesso della vita. Il libro tibetano prepara i vivi al dopo morte. Sempre gli egiziani credevano che l´uomo sarebbe vissuto eternamente nell´altro mondo se i suoi cari avessero fatto per il suo cadavere quello che gli Dei avevano fatto per il cadavere di Osiride. Noi, seppur inconsciamente, facciamo le stesse cose , con analoghi intenti. 
Von Hagens faccia a faccia con una sua opera


Ricomponiamo i nostri morti, celebriamo le esequie con un riguardo particolare,tenendo sempre ben presente le abitudini, i gusti, le preferenze di coloro che ci hanno lasciato. Da qualche parte, anche se celata negli angoli piu´profondi del nostro subcosciente, non c´e´forse la speranza che tutto cio´serva a facilitare il "passaggio", a favorire la "metamorfosi" di quel corpo che stiamo per seppelllire o affidare alle fiamme? E non ci siamo mai domandati , in quelle circostanze, se é mai possibile che finisca tutto li´sotto qualche metro di terra io in una manciata di cenere? In Africa ho assistito a diversi riti di iniziazione che consistevano nell´accettazione della morte come rito di passaggio.
Ancora nel suo racconto "Rivelazione magnetica" E.A. Poe chiede al suo immaginario interlocutore, il signor Vankirk: " L' uomo potrà mai ripudiare il corpo?" E Vankirk risponde: "Vi sono due corpi quello rudimentale e quello completo, corrispondenti alle due condizioni del bruco e della farfalla. Ciò che noi chiamiamo morte non é altro che la dolorosa metamorfosi."
Contrariamente agli spiritualisti, i seguaci della filosofia materialistica negano che qualunque aspetto della coscienza personale possa sopravvivere alla morte fisica. Secondo loro ogni attivita´mentale cesserebbe quando il cervello smette di esercitare la sua funzione. Ma quale cervello? Quello fisico-mentale o quello eterico?
Adriana dice che "Riguardo al corpo, al suo disfacimento fino al suo morire, non parlerei - per mia personale cognizione del corpo - di tabu, quanto di sacralità.
Il corpo gode della presenza dell'anima. L'unico modo che l'anima ha di vivere è di incarnarsi in un corpo, il quale acquisisce una valenza particolare che appartiene al sacro. Nell'avvicinarsi ad una persona, al suo corpo, ci si accosta con il rispetto che - per me - nasce da un'educazione all'inviolabilità e al riconoscimento che quel corpo è portatore di una unicità che non è legata tanto alla carne quanto allo spirito che le infonde vita. 
E' questo soffio vitale, il riconoscerlo, che ci induce al rispetto del corpo proprio e dell'altro, è la devozione che ne scaturisce che ci spinge alla cura del corpo, alla pietà per la sua decadenza, al sacro terrore per la morte che ne consegue.
Non credo che la "carne" sia fonte di imbarazzo, quanto piuttosto la presenza dello spirito che fa sentire un potere che supera la presenza fisica, oltrepassa e sovrasta ogni dimensione terrena, riporta ogni piano reale ad altri che "sentiamo" esistere in una realtà diversa, non misurabile, né quantificabile con i parametri fin qui conosciuti.


Talia afferma "devo dire che osservando dentro la teca di vetro Ramses II mummificato, rimasi scossa... a cosa guardavo in realtà? e poi ho recentemente letto "Io uccido" di Faletti, e lui scuoiava dopo la morte le sue vittime scelte (personaggi che la meritavano in fin dei conti questa morte...). Queste due esperienze se così posso dire, mi hanno fatto sempre pensare, che la pelle ci "sistema" nella nostra abitudine all'estetica e che il soffio vitale è dato da un gonfiore esteso in tutto il corpo, un gonfiore salutare come il respiro. Ho letto la biografia di quest'uomo che è stato l'unico (a ciò che mi consta) ad aver preso il cognome della moglie! Fatto straordinario al mio parere in un mondo dove noi dobbiamo rinunciare al nostro e nemmeno i figli possono portarlo senza provvedimenti particolari. Lui già in questo è fuori norma, ma in più ha un mito: eccellere oltre gli antichi egizi, anzi offrire a tutti la sua verità in modo quasi eterno. C'è anche un piacere a sconvolgere un pubblico, quasi a urlare: ma guardatevi per come siete realmente, senza quella pelle conformista, plasticosa e ben pensante...".


Antonia dice "Da sempre l'uomo si è interrogato sul corpo e sull'anima, in relazione alla geografia mentale di ciascuno si sviluppa un senso della vita e un senso della morte, il proprio senso dà il non senso degli altri!
Il corpo è l'espressione dell'anima individuale che senza quella sagoma resterebbe una forza quantica indifferenziata! Il corpo è così una possibilità della vita differenziata, offerta a più livelli di organizzazione spazio-temporale. Spesso crediamo che il corpo sia un solo spazio, il nostro spazio, mentre è la possibilità di una molteplicità di unità-organizzate a cui spesso non riconosciamo valore!
Il diritto di una cellula di esprimersi in noi o il diritto del fegato di esprimere la sua funzione o il diritto del cervello di organizzare le sue emozioni, il diritto della mano di afferrare... L'uomo è il grande egoista della storia che crede di essere padrone del sistema corpo e di farne uso e abuso a piacimento!"


Gianluigi afferma "Ogni piu' piccola particella e' parte del nostro mondo, e noi stessi ne siamo parte in maniera paritetica. E anche quando saremo morti ne continueremo a fare parte. E continueremo a interagire, non piu' come individui ma come parte del Tutto (di cui gia' facciamo parte).  Fin qui non c'e' niente di nuovo. La domanda pero' resta: ci sara' una forma individuale che continuera' ad esistere dopo la morte ? Uno straccio di anima, o qualcosa del genere ?
Forse no. Ma per me si ! Però in questo modo siamo usciti dal campo del ragionamento razionale e scientifico e siamo entrati nel campo metafisico e religioso".


E' sempre più frequente, devo notare, l'utilizzo di termini scientifici come "entanglement, "quantistico", "energia", "informazione", "campo" ecc. per cercare di inquadrare concetti millenari come quello di "anima" all'interno di un paradigma (o semantica del mondo) supportato dalle recenti scoperte scientifiche. La metafisica si aggiorna utilizzando il lessico scientifico, ma occorre fare attenzione a non confondere i due piani.

In tal senso su Facebook ho osservato che "la morte è un processo termodinamico e biologico e l'entanglement non credo possa essere una speranza di immortalità di "qualche quid informativo" che potremmo chiamare "anima"(...) A mio parere, è l'ipotesi - anche solo inconscia - che dopo la morte ci possa essere una sorta di "transizione di fase" che ci porta da uno stato di fisicità ad uno di spiritualità che rende la manipolazione del corpo post mortem un disturbo osceno di tale processo sacro e in quanto tale da proscrivere.
Il "problema" è sempre relativo all'ipotesi dualistica anima-corpo e riguarda in senso lato un rapporto consapevole con il nostro "essere biologici", che ancora non è stato culturalmente risolto (in Italia in particolar modo per motivi religiosi ben noti). Riflettiamo anche però sul nostro rapporto con come siamo fatti dentro, una rappresentazione che ci offre in maniera indubbiamente estrema Von Hagens.
La mia impressione è che ci siamo costruiti troppi paesaggi mentali e si conosca poco o niente del corpoEppure noi siamo corpo, la mente è "embodied", ma pensiamo in fin dei conti di "usarlo", anche attraverso l'anima che dovrebbe dargli vita e poi andarsene chissà dove quando il corpo muore.
Sono le stranezze del pensiero platonico di cui siamo permeati più di quanto sembri. (...) Personalmente rifuggo da forme di idealismo trascendentale in cui si ritiene che tutto sia una creazione della mente o un "gioco della mente" (vedi qui e qui) e cerco di essere più su posizioni epistemologiche di tipo costruttivista sulla scia di Humberto Maturana e Francisco Varela (accoppiamento strutturale tra soggetto ed ambiente, autopoiesi), ma non confondo epistemologia ed ontologia (Kant le fece coincidere per salvare la conoscenza dalla critiche empiriste), ossia ciò che conosciamo con ciò che esiste, che, per quanto in campo sociale esse tendono a coincidere, in ambito biologico, fisico, chimico ecc. non credo siano la stessa cosa.
L'epistemologia, ad esempio, riflette sulle scienze naturali (filosofia della scienza) e non credo si possa affermare senza una problematicità di fondo che il dna esista come ente "assoluto" della natura vivente o che esistano i quark come enti delle particelle subatomiche laddove questi enti li abbiamo "costruiti" noi e poi descritti e misurati.
Non dobbiamo mai dimenticare che le scienze naturali misurano e definiscono i loro enti, le loro proprietà e le reciproche relazioni su base sperimentale, ma che poi l'esistenza di questi enti sia del tutto subordinata alla specifica ontologia (diciamo anche catalogo o tassonomia) della singola disciplina che è soggetta spesso a cambiamenti e falsificazioni.
Pertanto, tentare di estrapolare da concetti come l'entanglement della meccanica quantistica (ontologia materiale specifica) l'esistenza dell'anima (metafisica assoluta) direi che è una procedura logicamente viziata ed è più una forma di suggestiva analogia, come dicevo prima.
In sintesi, non si può poggiare la metafisica dell'anima sull'ontologia di nessuna scienza perchè sono ambiti completamente diversi. 
Come diceva Gianluigi credere nell'anima non può essere spiegato con la scienza o la logica e questo, dopotutto, "salva" tutti coloro che vogliono ancora credere in enti metafisici assoluti e non soggetti all'esperimento di tipo scientifico, ma piuttosto dipendenti da una propria fenomenologia estetica e da una visione metafisica soggettiva.
I ragionamenti sull'anima sono dunque congetture metafisiche e pertanto affermare che l'anima è informazione quantica è identico, da un punto di vista epistemologico, a dire che le interazioni subatomiche che tengono unita la materia siano fatte dall'amore divino (sono credenze per così dire "aggiornate" con concetti scientifici): non abbiamo alcuna possibilità di sperimentare queste ipotesi metafisiche e quindi... chi vuole ci creda".


Inoltre, a mio parere, se il concetto di "anima" è stato analizzato a partire dalle religioni e dalle varie filosofie, quello di corpo è rimasto sostanzialmente sacrificato e subordinato platonicamente a quello di mente e di spirito. Se ci riflettiamo, noi non "sentiamo" cosa accade dentro il nostro corpo, non abbiamo alcuna percezione specifica di come i nostri stili di vita incidano sulla funzionalità dei nostri organi interni e siamo poco propensi a parlarne se non in chiave teorica: la vista dell'interno del corpo (e dello stesso cervello) è quasi un tabù, è alle soglie dell' oscenità (infatti l'interno del corpo è fuori della scena delle nostre vite e fuori della consapevolezza percettiva se non per stimoli che comunque sono interpretati dal cervello).
La nostra cultura - e in questo Platone ci ha condizionato in maniera sostanziale - ha sempre privilegiato il "pensiero astratto" della mente all'esperienza sensibile del corpo (preciso che le due cose non dovrebbero considerarsi cartesianamente divise, ma intrinsecamente unite: la mente è "embodied"!) ritenuta a vario titolo contingente, fallace, soggettiva e comunque di tipo "inferiore" a quella mentale.
Ne è conseguita da un lato una sottovalutazione conoscitiva del corpo, mentre dall'altro una sua progressiva enfatizzazione prima come "oggetto estetico" (quindi in prevalenza mentale) e poi come "merce di scambio" all'interno del sistema economico capitalistico dai contenuti sempre più immateriali.

Il corpo è dunque ancora oggi - anzi forse oggi più che mai - un'idea anziché un' esperienza ed una conoscenza. Inoltre, la sua dimensione appartiene sempre più al simulacro che al sacro.


Da qui, il rifiuto di vedere davvero e in prima persona che cosa c'è dentro quel corpo esteriore e l'oscenità di cui parlavo prima con la quale si percepisce l'opera di Von Hagens.
Noi non ci sentiamo corpo se non nei momenti in cui lo utilizziamo davvero, ad esempio per correre, per mangiare, per fare sesso ecc., ma è un sentire di tipo meramente percettivo e quindi in definitiva mediato dal pensiero della mente. Diverso è vedere l'interno, impattare con quello che c'è sotto la carne.
La carne stessa, a mio parere, è nella sua "espressività ancestrale" e nel suo essere un messaggio immediato di vita un qualcosa di osceno, tanto che cerchiamo di coprirla e l'atto di scoprirla è interpretato come atto di seduzione o - a seconda dei casi - di volgarità.
Ancora una volta il problema sembra essere nel rapporto dicotomico con il corpo, sia come è "fuori" sia come è "dentro". Non sembriamo essere propensi ad accettarlo, ma piuttosto ad "inventarlo" a nostro uso e consumo.
Infine, il nostro rapporto problematico con il corpo è ancora più enfatizzato dal progressivo ed esponenziale sviluppo delle cyber-relazioni, che riducono sempre più il contatto diretto visivo e percettivo nei rapporti tra esseri umani (ormai siamo abituati agli "emoticon") a vantaggio di una amplificazione dell'immaginazione (e spesso delle illusioni...)  e dell'uso seduttivo del proprio alter ego digitale all'interno di quelli che potremmo definire in tal senso i "social-supermarket digitali delle emozioni"(l'utilizzo di SN come Facebook o Badoo mi sembra che sia sostanzialmente di questo tipo).
Si vogliono vivere (facili) emozioni svincolate dal rapporto diretto (il successo del sesso virtuale direi che è innegabile) e soprattutto si vuole scegliere negli immensi scaffali dei social networks fatti da esseri umani.
Dunque, si perpetua con il digitale una nostra sostanziale idiosincrasia per il corpo fisico in quanto tale, che continua così ad essere quell'involucro - a volte ingombrante altre volte seducente a seconda di come ci pare - che vogliamo a tutti i costi dominare con la mente, magari fingendo che non ci sia da un lato e agognandone il possesso dall'altro. Tutto questo forse è più "osceno" delle opere di Von Hagens (anche perchè è messo in scena in maniera plateale), che dite?


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