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sabato 26 marzo 2011

Cosa è la mente estesa? (2ª Parte)

"Il nostro problema consiste nel fatto che abbiamo cercato la coscienza dove non c'è. Dovremmo invece cercarla dove essa si trova. La coscienza non è qualcosa che accade dentro di noi. Piuttosto, è qualcosa che facciamo o creiamo. Meglio: è qualcosa che realizziamo. La coscienza assomiglia più alla danza che alla digestione" (Alva Noe, 2010).
Fonte: http://www.humanconnectomeproject.org/
Possiamo iniziare da queste parole il nostro viaggio alla ricerca della "mente estesa", ossia della coscienza che si realizza non solo e non tanto dentro il nostro cervello per effetto dell'azione dinamica delle complesse connessioni neurali, ma come incontro e profonda compenetrazione fra corpo, cervello e mondo (dove, ovviamente, corpo, cervello e ambiente sono inscindibili).
La coscienza, in tale accezione, è fondamentalmente la nostra esperienza, che non è solo il frutto delle "firme neurali" all' interno del cervello, pur sempre presenti ed importanti, ma è sicuramente qualcosa di molto più complesso che attiene alla vita nel suo insieme e nel suo dispiegarsi all'interno della rete articolata di relazioni con i nostri simili.
Infatti, Alva Noe a tal riguardo afferma che "Per progredire nella comprensione della coscienza occorre rinunciare alla microanalisi neurale interna. Il luogo della coscienza è la vita dinamica dell'intera persona o dell'intero animale (quindi non solo l'essere umano, nda) immersi nel loro ambiente. E' solo assumendo una prospettiva olistica sulla vita attiva della persona e dell'animale che possiamo cominciare a rendere intellegibile il contributo che il cervello da' all'esperienza cosciente" (cit.).
Occorre, dunque, uscire dalla visione di un cervello nella vasca e mettere al primo posto dell'analisi l'essere vivente nel suo insieme. Quello che molte ricerche dei neuroscienziati e degli scienziati cognitivi sembrano far emergere come assunto di base è che il nostro corpo è una sorta di protesi robotica agli ordini di un cervello "autonomo" (materialismo cartesiano) e quindi la verità sarebbe che "siamo cervelli immersi in vasche riempite di liquido nutriente. Le nostre teste sarebbero le vasche ed i nostri corpi i sistemi di supporto vitale che ci consentono di sopravvivere" (cit.).
E' davvero così? Siamo certi che questo tipo di analisi sia feconda di risultati?
Secondo Alva Noe decisamente no. "La coscienza non accade nel nostro cervello. Questa è la ragione per cui non siamo ancora riusciti a dare una buona spiegazione delle sue basi neurali" (A. Noe, 2010 cit.). Ed io concordo in buona parte con Alva Noe, in quanto l'analisi dominante delle neuroscienze e delle scienze cognitive sembra ancora essere variamente dominata da un riduzionismo di fondo che, seppur utile per capire i singoli meccanismi neurologici e le connesse patologie, non può spiegare l'emergenza ed il funzionamento della coscienza come proprietà complessa degli esseri viventi e l'auto-coscienza come peculiare proprietà cognitiva degli esseri umani.
Aggiungerei che capire il funzionamento dei meccanismi della circuiteria elettrochimica neurale non basta nemmeno per capire l'origine di una patologia per poi curarla, come per esempio può essere la depressione (una delle malattie sociali del nostro tempo), ma è altresì evidente come lo studio "riduzionista" di tipo bio-chimico sia comunque molto importante per trovare delle terapie farmacologiche, che si rivelano spesso (ma non sempre e comunque) un buon supporto per cure psicologiche e comportamentali di più ampia portata.
Entra qui in gioco il più ampio discorso della causalità, al quale ho accennato nel precedente post e dei correlati concetti di determinismo e predicibilità: l'idea (neo)riduzionista si fonda essenzialmente sul principio di chiusura causale del mondo fisico, sul quale occorre mettersi ben d'accordo essendo in ultima istanza comunque un principio metafisico (non fisico come può essere la legge di conservazione dell'energia) di tipo materialista. 
Esistono diversi modi di descrivere tale principio, i cui principali sono i seguenti:

1. Nessun evento fisico può avere una causa al di fuori del dominio fisico (Jaegwon Kim, neo-riduzionismo);
2. Tutti gli effetti fisici possono essere in ultima istanza ridotti a cause fisiche (versione riduzionista forte);
3. Qualsiasi evento fisico che ha una causa ha una causa sufficiente di tipo fisico;
4. Tutti gli effetti fisici hanno cause sufficienti di tipo fisico;
5. Tutti gli effetti fisici hanno una completa causa fisica;
6. Qualsiasi effetto fisico ha una storia fisica autentica e pienamente significativa;
7. Qualsiasi effetto fisico ha la sua occorrenza determinata solo da eventi fisici;
8. Nessun effetto fisico ha una causa non fisica;
9. Effetti fisici hanno solo cause fisiche;
10. Qualsiasi volta in cui qualche evento fisico ha una causa, esso ha una causa sufficiente di tipo fisico;
11. Se non si da' il caso che accade A, allora B non accade (logica controfattuale).

Inoltre, dobbiamo intendere per :
a. causa necessaria : Se x è causa necessaria di y, allora la presenza di y necessariamente implica la presenza di x. La presenza di x, comunque, non implica che y si presenterà.

b. causa sufficiente: Se x è causa sufficiente di y, allora la presenza di x necessariamente implica la presenza di y. Comunque un'altra causa z può può alternativamente causare y. Così, la presenza di y non implica la presenza di x.

Si può notare che nei vari modi di enunciare il principio di chiusura causale, tranne in quello forte al punto 2. dove si parla esplicitamente di riduzione sempre e comunque a cause fisiche, alcuni (versione "debole") menzionano la causa sufficiente per cui se con y intendiamo la coscienza come "effetto fisico" e con x i "correlati neurali" non si può escludere a priori che possa esistere un'altra causa z (non strettamente fisica), diversa da x, che possa causare y, mentre gli altri più in generale tendono in diversa maniera ad escludere che la coscienza possa essere causata da cause non fisiche, essendo la coscienza stessa un evento fisico (p.e. Jaegwon Kim). Più generale e "alternativa" è la versione controfattuale di cui ho già parlato nel post precedente, che non fa ipotesi sulla natura - fisica o meno - della relazione causale, ma solo sul manifestarsi contestuale (mutua implicazione causale) di x e di y.
L'obiettivo, in fin dei conti, è quello di escludere il mistero e principi metafisici di tipo "spirituale" dalla spiegazione della coscienza, per cui se partiamo da questo assunto anche noi, ossia se facciamo una ipotesi di tipo naturalistico e materialista (non solo nel senso fisico di materia-energia-informazione, ma anche di tipo socio-culturale), possiamo continuare a parlare di coscienza in senso più ampio seguendo Alva Noe e il suo riferimento a due tipi fondamentali di correlati della mente: quello del corpo-cervello e quello dell'ambiente-mondo.

Siamo ormai abituati a parlare del cervello sulla base di quanto emerge dalle ricerche effettuate con tecniche come la fMRI, la PET, la TAC, l'EEG o la recente e promettente optogenetica, quindi assumendo che i dati forniti da tali tecnologie possano corrispondere ai correlati neurali della mente e quindi dimostrare che uno stato di coscienza dipenda causalmente ed esclusivamente dall'attivazione di una certa area cerebrale: queste tecnologie rappresenterebbero, in ultima istanza, delle "macchine leggi-pensieri" e ci potrebbero spiegare tutto ciò che c'è da sapere sulla mente. In tal senso, Alva Noe ci mette in guardia dalla potenziale nascita di una nuova frenologia in cui si ipotizzi che ci sia una perfetta corrispondenza fra i dati del "brain imaging" e gli stati mentali e di coscienza. L'esempio che il nostro autore fa è quello degli stati vegetativi permanenti, dicendo che "i pazienti che si trovano in uno stato vegetativo permanente mostrano una marcata riduzione del metabolismo cerebrale globale, così come avviene per i soggetti che si trovano nella fase del sonno cosiddetta 'a onde lente' o per i pazienti sottoposti ad anestesia. Tuttavia questi ultimi si svegliano e sono in grado di riacquistare un normale stato di coscienza, mentre i pazienti in stato vegetativo permanente raramente lo fanno. Vale la pena ricordare che, in un piccolo numero di casi in cui sono stati studiati con visualizzazioni cerebrali pazienti che avevano recuperato dallo stadio vegetativo permanente, riacquistando piena coscienza, è risultato che i livelli metabolici (rilevati con il "brain imaging", nda) rimanevano bassi anche dopo il pieno recupero. Inoltre, stimoli esterni quali suoni e punture producevano (nello stato vegetativo, nda) un significativo aumento dell'attività neuronale nelle cortecce percettive primarie. Nuove ricerche condotte in Belgio da Steven Laureys e dai suoi colleghi mostrano sorprendentemente che nei pazienti in stato vegetativo sono presenti danni alle connessioni funzionali tra aree corticali distanti e tra strutture corticali e subcorticali. Inoltre, le stesse ricerche mostrano che anche nei casi in cui la coscienza viene riacquistata, fermo restando un generale abbassamento dell'attività metabolica, le connessioni funzionali tra aree cerebrali sono ristabilite" (A. Noe, cit.).
Ne emergono questioni molto serie sulla nostra capacità di dedurre tramite il "brain imaging" cosa davvero accada alla coscienza di una persona: "Un paziente che si trovi in uno stato vegetativo permanente sente dolore fisico? Per esempio, quello legato alla sete, alla fame, alla puntura di uno spillo? Può udire il rumore di una porta che sbatte? Sappiamo che egli muove la testa in risposta a un suono e che ritira la mano dopo la puntura di uno spillo. Sappiamo inoltre che tali stimoli producono nel paziente una significativa attività neuronale a livello delle cortecce percettive primarie. Il paziente in uno stato vegetativo è forse un robot in grado di rispondere in modo automatico agli stimoli esterni, senza però provare alcuna sensazione? E ancora più importante, tutto questo è qualcosa che le tecniche di visualizzazione cerebrale possono aiutarci a decidere? Non sappiamo come rispondere a queste domande" (A. Noe, cit.).
Fonte: http://www.med.harvard.edu/AANLIB/home.html
Ancora sull'uso di PET e fMRI Alva Noe asserisce che:
"PET e fMRI forniscono come prodotti finali delle immagini colorate. Ogni colore corrisponde ad un preciso livello di attività neurale; la configurazione dei colori indica le aree del cervello dove si ritiene che sia presente un'attività neurale. Zone più luminose indicano livelli di attività maggiori. E' abbastanza facile misconoscere che le immagini prodotte da fMRI e PET non sono effettivamente delle istantanee del cervello in azione. Il lavoro dello scanner e dello scienziato assomigliano molto di più all' identikit di un ricercato che un poliziotto traccia ricorrendo all'ausilio di diversi testimoni che allo scatto di una fotografia o di un'immagine ai raggi X. Un identikit fornisce certamente delle informazioni sul ricercato. Tuttavia, non rappresenta direttamente il volto del criminale; si tratta piuttosto di rendering grafico basato su resoconti potenzialmente conflittuali di quello che individui diversi sostengono di aver visto. Più che una vera e propria raffigurazione del ricercato, un simile profilo riflette congetture ed ipotesi avanzate rispetto alla sua identità. In realtà, anche ammettendo che l' identikit in nostro possesso sia verosimile, nulla ci garantisce che ci sia un ricercato. Allo stesso modo, le immagini prodotte attraverso l'impiego di PET e fMRI non possono in alcun modo essere considerate tracce dirette di fenomeni psicologici. Piuttosto, esse rappresentano una congettura, o un'ipotesi, riguardo a ciò che noi pensiamo stia accadendo nel cervello di un soggetto. Per comprendere questo punto vale la pena tenere presente il problema che ci si trova ad affrontare nel momento in cui si desidera determinare quale attività neurale sia rilevante rispetto ad un dato fenomeno mentale. Gli scienziati iniziano assumendo che ad ogni compito mentale - ad esempio, giudicare se due parole siano in rima o meno - corrisponda un processo neurale. Come possiamo decidere quale specifica attività cerebrale tra quelle che si manifestano in concomitanza con un compito mentale sia l'effettiva attività neurale responsabile della capacità che ci interessa analizzare? Per questo occorre innanzitutto avere una chiara idea di come starebbero le cose se lo stesso compito non fosse stato eseguito; occorre cioè disporre di una 'baseline' rispetto alla quale valutare se una certa deviazione da essa corrisponda all'atto mentale in questione. Un modo per ottenere una simile condizione consiste nel confrontare l'immagine del cervello a riposo con l'immagine del cervello che esegue uno specifico compito, come per esempio la formulazione di un giudizio" (A. Noe, 2010).

Ma a questo punto la domanda è "Come decidiamo a cosa assomiglia un cervello a riposo?", si chiede A. Noe, visto che anche nel sonno ci sono fasi in cui esso lavora ancora di più di quando è in stato di veglia?
Come hanno argomentato Guy Van Orden e Kenneth R. Paap "il metodo comparativo assume che non vi sia alcuna reciproca influenza tra ciò che il cervello fa quando compiamo un giudizio di rima e quello che fa quando percepiamo le parole. Nel caso tale influenza esistesse, ne seguirebbe allora che alla sovrapposizione di regioni nelle immagini non corrisponderebbe necessariamente un fattore neurale comune. Oggi sappiamo che tale influenza esiste. L'attività neurale nel cervello durante la percezione, per esempio, non è un processo a senso unico. E' caratterizzata piuttosto da processi circolari e bidirezionali. Esistono, infatti, vie neurali che dai sensi si dirigono verso il cervello, così come ne esistono altre che compiono il percorso inverso." (A. Noe, cit.).
Ne consegue che l'esistenza di processi complessi di feedback neurali non consente di "isolare con precisione" con il "brain imaging" quale sia il correlato neurale di una specifica attività mentale.
Esiste, inoltre, un problema del "quando gli eventi neurali stiano accadendo" in quanto gli eventi cellulari si realizzano alla scala del millesimo di secondo, "ma occorrono scale di tempo molto più lunghe (nell'ordine di un minuto) per rilevare ed elaborare i segnali necessari a produrre immagini. Per queste ragioni gli scienziati sono giunti a sviluppare tecniche di normalizzazione dei dati. Tipicamente, si calcola la media dei dati provenienti da soggetti diversi. Ciò implica la perdita di una considerevole quantità di informazioni. Dopotutto, i cervelli differiscono l'uno dall'altro non meno di quanto accada con i volti e le impronte digitali. Proprio come il contribuente medio americano non ha un peso ed un'altezza fissati, così un'attività neurale media non possiede alcuna localizzazione fissata all'interno di un cervello particolare. Per questo gli scienziati proiettano le proprie scoperte su un cervello ideale. Le immagini che vediamo nelle riviste scientifiche non sono fotografie del cervello in azione di una data persona".
Infine, occorre tener presente - come dice A. Noe - che le scansioni cerebrali rappresentano l'attività mentale ad una tripla distanza (quindi sono molto indirette rispetto alla attività neurale in senso stretto): "rappresentano la grandezza fisica correlata al flusso sanguigno; il flusso sanguigno è a sua volta correlato all'attività neurale; l'attività neurale, infine, è considerata correlata all'attività mentale" (cit.).
Esaminato, molto in sintesi, come l'idea di poter vedere il cervello in azione e nel mentre pensa sia molto approssimativa e vada presa "cum grano salis" e quindi avendo stabilito come non esista una causalità diretta fra attività mentale e brain imaging (che va quindi ridimensionato come strumento disponibile alla comprensione della mente, pur essendo di certo un ottimo ausilio), quanto piuttosto una sorta di predicibilità media di tipo statistico e di tipo a "grana grossa" (non si può inferire con certezza che non ci siano sovrapposizioni di attività mentali allo stesso tempo e reciproche influenze, nonché non è possibile essere certi che quanto accade in laboratorio sia identico al "cervello in azione" nella realtà quotidiana), possiamo procedere con più agevolezza nel percorso di comprensione verso la "extended mind". 

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venerdì 28 maggio 2010

RIZOM@, quali rapporti tra spiritualità, arte e scienza? (2^ ed ultima parte)

E' sempre "sorprendente" riscontrare come la spiritualità, nelle sue componenti della religiosità, del misticismo, delle filosofie "metafisiche" ed "ecologiche" (ad es. la "new age") o anche massonico-esoteriche, sia nell'era tecno-digitale ancora molto radicata in tutte le culture.


Tra gli stessi scienziati, che in genere dovrebbero essere "portati" in virtù dei loro studi ad una visione più "materialistica" (un termine che cercherò di analizzare meglio in seguito), non è raro trovare credenti delle varie religioni o, più in generale, convinti assertori di una "dimensione altra" rispetto a quella finora "scoperta" e descritta dalle scienze fisiche, chimiche, biologiche e neuro-cognitive.
Se avete voglia di approfondire il tema c'è un buon sito, quello del CESNUR, che si occupa di studiare le "nuove religioni" (ma anche quelle"storiche") ed in questa pagina  non avrete altro che l'imbarazzo della scelta.
"Dio è morto" asseriva il filosofo Friedrich Nietzsche nella sua "La gaia scienza" e in "Così parlò Zarathustra", ma d'altronde oggi forse come e più di ieri gli uomini si fanno la guerra o comunque entrano in profondo conflitto fra di loro in nome e per conto di un Dio e dei relativi principi e dogmi rivelati da lui o dalla sua casta sacerdotale. Lungi da me affrontare in questa sede i perché del sentimento religioso attraverso i secoli, ma ne voglio "registrare" per così dire la persistenza anche nella cultura tecno digitale del XXI secolo, dove invece sembrava che il "materialismo" dovesse imporsi per "forza di cose". Invece non è stato così. Ma cosa intendiamo per materialismo? Cosa è la materia?

Una delle grandi rivoluzioni della fisica e del pensiero del XX° secolo è stata la teoria della relatività di Albert Einstein, che ha sancito l'equivalenza fra massa ed energia nella famosa formula che correla l'energia alla massa attraverso il quadrato della velocità della luce. Dunque massa ed energia sono equivalenti e quindi l'una si può trasformare nell'altra... Già questa affermazione destabilizza completamente un "materialismo ingenuo" di stampo ottocentesco e apre nuovamente e "paradossalmente" le porte a visioni in cui torna a prevalere l'energia e quindi per analogia lo "spirito". Ma d'altronde se l'energia è equivalente alla materia è essa stessa "materiale" e quindi attribuirle una dimensione"spirituale" è una estrapolazione del tutto arbitraria e fatta, come dicevo, in virtù di associazioni metaforiche ed analogiche, oltre che a convinzioni profonde dei singoli individui e delle comunità di credenti delle varie religioni.
Passando alla meccanica quantistica le cose si complicano non poco, poiché potremmo dire che la concezione della materia diventa ancora più "sfumata" con il"dualismo onda-particella" e concetti come quello di "vuoto quantistico""particelle virtuali""fluttuazioni del vuoto""energia del vuoto" (energia del "campo zero"), e dove ancora il modello che ha avuto fino ad oggi le maggiori evidenze sperimentali, ossia il Modello Standard, sta cercando di verificare nel LHC l'esistenza del "meccanismo di Higgs" ed il relativo bosone per dare coerenza all'esistenza della massa che altrimenti non si spiegherebbe come si "genera".

Se poi a questo aggiungiamo che in base ai calcoli eseguiti dai cosmologi tenendo conto del predetto modello e della teoria della relatività gran parte dell'universo è fatto di "materia oscura" ed "energia oscura" e solo meno del 5% è fatto dalla materia e dall'energia "visibile" e "conosciuta" si ottiene come risultato il "buio quasi assoluto".
Conosciamo solo il 5% dell'universo e anche in maniera non "completa". Questo è sicuramente un grande stimolo per gli scienziati che devono cercare nuove risposte, ma d'altro canto è anche un forte stimolo alla ricerca di "risposte individuali" e alle "religioni fai da te" di cui parlavo in precedenza. L'essere umano non si accontenta del 5%, ma brama "l'assoluto" e se lo costruisce con la sua mente. E la mente sembra essere la frontiera anche di molti scienziati che, visto lo stallo delle scienze fisiche e dei relativi modelli - come ben descrive Lee Smolin nel suo"Universo senza stringhe"- , si sono dedicati alle neuroscienze, alla biologia teorica, alle scienze economiche o ad altre applicazioni più "pratiche".
La "teoria del tutto" non è stata ancora trovata e forse non si troverà mai, almeno nel senso di unificazione profonda di tutte le forze e le particelle dell'universo. Anche se siamo sempre fiduciosi.
D'altronde anche la mente non è stata interpretata in maniera definitiva, anzi forse siamo solo agli inizi sugli studi dei rapporti fra cervello e mente.
Ma cosa è la mente? Cosa è il pensiero?



Anche qui si cerca una sorta di "teoria del tutto" che ci spieghi come da questo ammasso di carne"gelatinosa" che è il cervello si possa generare il pensiero e attività evolute come il pensiero astratto e quindi le emergenze semantiche che esso è in grado di generare.
I concetti di complessità ed emergenza, così come quelli di rete, sono sempre più usati e tentano di arginare quella che potrebbe diventare, se già non lo è, una sorta di "delusione per la scienza" a favore piuttosto di una "esaltazione della tecnologia".
In sintesi, laddove la scienza stenta a dare "risposte importanti" la tecnologia, invece, soddisfa esigenze più pratiche come quelle della connessione e della comunicazione. La conoscenza arranca mentre la tecnologia, con i suoi modelli fortemente legati al consumismo, dilaga. In questo scenario, è quasi "inevitabile" che la spiritualità, ossia questo bisogno ancestrale di assoluto che ha l'essere umano, emerga in forme sempre nuove e sempre più "ibridate" da suggestioni provocate dalla conoscenza scientifica che vengono descritte anche dalle opere artistiche. L'analogia cerca di sopperire a ciò che invece al momento la logica e la scienza non riescono a spiegare, soddisfacendo in tal modo il bisogno di "trascendenza" e di "metafisica" dell'essere umano. Concetti come quello di informazione e di consapevolezza vengono sempre più usati per descrivere in maniera "analogica" l'universo in cui viviamo, fino a concezioni in cui si esalta il pensiero come origine stessa della materia.
In una recente intervista rilasciata alla rivista Scienza e Conoscenza, il fisico teorico e nucleare Amit Goswami - tra quelli che hanno realizzato il famoso "What do the bleep do we know?" (qui un video) e autore del recente documentario "The quantum activist" - si sofferma proprio sul concetto di materialismo e di metafisica, che nel suo ragionamento è equiparabile al nostro "paradigma culturale" (intriso cioè anche di memi ed ideologie), ed afferma che:



"La scienza materialista, a partire dagli anni Cinquanta, ha cominciato ad adottare un particolare tipo di metafisica, dalla quale poi non si è più staccata. L'adozione di questa metafisica è inutile, perchè la scienza non si deve fissare su una metafisica fino a quando non ne è totalmente certa. La metafisica deve necessariamente essere priva di paradossi. La scienza che opera usando l'attuale concezione del mondo (la "semantica", nda), la metafisica di cui stiamo parlando, la chiamo scienza materialista. Tale concezione del mondo, non necessaria, è la seguente: ogni cosa è composta di materia. Sarebbe stato meglio semplicemente definire questa scienza come scienza del mondo materiale, invece si è voluto a tutti i costi non solo sostenere che avevamo sviluppato la scienza del mondo materiale, ma che quest'ultimo era tutto ciò che esisteva, benché la fisica quantistica ci stesse già offrendo un grande paradosso: secondo la fisica quantistica (...) gli oggetti non sono altro che possibilità.  E le interazioni materiali non possono mai trasformare queste possibilità in oggetti tangibili.  Le interazioni materiali possono solo trasformare le possibilità in altre possibilità".

Secondo Goswami, in sintesi, è "la consapevolezza il fondamento di tutto l'essere, inclusa la materia. La materia consiste di onde di possibilità tra cui la consapevolezza può scegliere".


E', dunque, in questa visione il "pensiero consapevole" a creare il mondo facendolo "collassare" continuamente in una fra le tante e infinite possibilità che esso ha di manifestarsi e la consapevolezza diventerebbe "il mediatore fra mente e materia".
Questa mediazione avverrebbe secondo la "comunicazione non locale, una comunicazione che non richiede segnali, perché essi fanno tutti parte della consapevolezza stessa. Non richiede segnali locali per cui non viene violata alcuna legge fisica".
Goswami non è l'unico, ovviamente, a esprimere con un "linguaggio ibridato" da concetti scientifici ed una spiritualità che potremmo definire appunto "quantistica" in quanto fortemente correlata ai concetti della fisica quantistica, come quello di "campo", "non località", "non linearità", "probabilità". Siamo in una fase del pensiero in cui si stanno creando delle aperture fra concezioni diverse ed in cui sta tornando una spiritualità sotto forma di "spiritualità quantistica", all'interno di quella "cultura del quantum" di cui abbiamo parlato nel precedente post. L'arte e la scienza in questa "cultura del quantum" si connettono anche alla spiritualità perchè inevitabilmente esse sottendono il (bi)sogno umano di raggiungere l'assoluto e la Conoscenza e in tal modo danno vita ad una semantica del mondo densa di "ibridazioni analogiche" che non possono, a mio parere, non preludere a nuove ed interessanti scoperte.
Resta, in tutto questo, anche la nutrita schiera degli atei e dei materialisti, ma capiamo bene che in un contesto di "sfumatura quantistica" della conoscenza le certezze sono sempre "sospette", da qualunque parte esse provengano.

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