rss
email
twitter
facebook

sabato 26 marzo 2011

Cosa è la mente estesa? (2ª Parte)

"Il nostro problema consiste nel fatto che abbiamo cercato la coscienza dove non c'è. Dovremmo invece cercarla dove essa si trova. La coscienza non è qualcosa che accade dentro di noi. Piuttosto, è qualcosa che facciamo o creiamo. Meglio: è qualcosa che realizziamo. La coscienza assomiglia più alla danza che alla digestione" (Alva Noe, 2010).
Fonte: http://www.humanconnectomeproject.org/
Possiamo iniziare da queste parole il nostro viaggio alla ricerca della "mente estesa", ossia della coscienza che si realizza non solo e non tanto dentro il nostro cervello per effetto dell'azione dinamica delle complesse connessioni neurali, ma come incontro e profonda compenetrazione fra corpo, cervello e mondo (dove, ovviamente, corpo, cervello e ambiente sono inscindibili).
La coscienza, in tale accezione, è fondamentalmente la nostra esperienza, che non è solo il frutto delle "firme neurali" all' interno del cervello, pur sempre presenti ed importanti, ma è sicuramente qualcosa di molto più complesso che attiene alla vita nel suo insieme e nel suo dispiegarsi all'interno della rete articolata di relazioni con i nostri simili.
Infatti, Alva Noe a tal riguardo afferma che "Per progredire nella comprensione della coscienza occorre rinunciare alla microanalisi neurale interna. Il luogo della coscienza è la vita dinamica dell'intera persona o dell'intero animale (quindi non solo l'essere umano, nda) immersi nel loro ambiente. E' solo assumendo una prospettiva olistica sulla vita attiva della persona e dell'animale che possiamo cominciare a rendere intellegibile il contributo che il cervello da' all'esperienza cosciente" (cit.).
Occorre, dunque, uscire dalla visione di un cervello nella vasca e mettere al primo posto dell'analisi l'essere vivente nel suo insieme. Quello che molte ricerche dei neuroscienziati e degli scienziati cognitivi sembrano far emergere come assunto di base è che il nostro corpo è una sorta di protesi robotica agli ordini di un cervello "autonomo" (materialismo cartesiano) e quindi la verità sarebbe che "siamo cervelli immersi in vasche riempite di liquido nutriente. Le nostre teste sarebbero le vasche ed i nostri corpi i sistemi di supporto vitale che ci consentono di sopravvivere" (cit.).
E' davvero così? Siamo certi che questo tipo di analisi sia feconda di risultati?
Secondo Alva Noe decisamente no. "La coscienza non accade nel nostro cervello. Questa è la ragione per cui non siamo ancora riusciti a dare una buona spiegazione delle sue basi neurali" (A. Noe, 2010 cit.). Ed io concordo in buona parte con Alva Noe, in quanto l'analisi dominante delle neuroscienze e delle scienze cognitive sembra ancora essere variamente dominata da un riduzionismo di fondo che, seppur utile per capire i singoli meccanismi neurologici e le connesse patologie, non può spiegare l'emergenza ed il funzionamento della coscienza come proprietà complessa degli esseri viventi e l'auto-coscienza come peculiare proprietà cognitiva degli esseri umani.
Aggiungerei che capire il funzionamento dei meccanismi della circuiteria elettrochimica neurale non basta nemmeno per capire l'origine di una patologia per poi curarla, come per esempio può essere la depressione (una delle malattie sociali del nostro tempo), ma è altresì evidente come lo studio "riduzionista" di tipo bio-chimico sia comunque molto importante per trovare delle terapie farmacologiche, che si rivelano spesso (ma non sempre e comunque) un buon supporto per cure psicologiche e comportamentali di più ampia portata.
Entra qui in gioco il più ampio discorso della causalità, al quale ho accennato nel precedente post e dei correlati concetti di determinismo e predicibilità: l'idea (neo)riduzionista si fonda essenzialmente sul principio di chiusura causale del mondo fisico, sul quale occorre mettersi ben d'accordo essendo in ultima istanza comunque un principio metafisico (non fisico come può essere la legge di conservazione dell'energia) di tipo materialista. 
Esistono diversi modi di descrivere tale principio, i cui principali sono i seguenti:

1. Nessun evento fisico può avere una causa al di fuori del dominio fisico (Jaegwon Kim, neo-riduzionismo);
2. Tutti gli effetti fisici possono essere in ultima istanza ridotti a cause fisiche (versione riduzionista forte);
3. Qualsiasi evento fisico che ha una causa ha una causa sufficiente di tipo fisico;
4. Tutti gli effetti fisici hanno cause sufficienti di tipo fisico;
5. Tutti gli effetti fisici hanno una completa causa fisica;
6. Qualsiasi effetto fisico ha una storia fisica autentica e pienamente significativa;
7. Qualsiasi effetto fisico ha la sua occorrenza determinata solo da eventi fisici;
8. Nessun effetto fisico ha una causa non fisica;
9. Effetti fisici hanno solo cause fisiche;
10. Qualsiasi volta in cui qualche evento fisico ha una causa, esso ha una causa sufficiente di tipo fisico;
11. Se non si da' il caso che accade A, allora B non accade (logica controfattuale).

Inoltre, dobbiamo intendere per :
a. causa necessaria : Se x è causa necessaria di y, allora la presenza di y necessariamente implica la presenza di x. La presenza di x, comunque, non implica che y si presenterà.

b. causa sufficiente: Se x è causa sufficiente di y, allora la presenza di x necessariamente implica la presenza di y. Comunque un'altra causa z può può alternativamente causare y. Così, la presenza di y non implica la presenza di x.

Si può notare che nei vari modi di enunciare il principio di chiusura causale, tranne in quello forte al punto 2. dove si parla esplicitamente di riduzione sempre e comunque a cause fisiche, alcuni (versione "debole") menzionano la causa sufficiente per cui se con y intendiamo la coscienza come "effetto fisico" e con x i "correlati neurali" non si può escludere a priori che possa esistere un'altra causa z (non strettamente fisica), diversa da x, che possa causare y, mentre gli altri più in generale tendono in diversa maniera ad escludere che la coscienza possa essere causata da cause non fisiche, essendo la coscienza stessa un evento fisico (p.e. Jaegwon Kim). Più generale e "alternativa" è la versione controfattuale di cui ho già parlato nel post precedente, che non fa ipotesi sulla natura - fisica o meno - della relazione causale, ma solo sul manifestarsi contestuale (mutua implicazione causale) di x e di y.
L'obiettivo, in fin dei conti, è quello di escludere il mistero e principi metafisici di tipo "spirituale" dalla spiegazione della coscienza, per cui se partiamo da questo assunto anche noi, ossia se facciamo una ipotesi di tipo naturalistico e materialista (non solo nel senso fisico di materia-energia-informazione, ma anche di tipo socio-culturale), possiamo continuare a parlare di coscienza in senso più ampio seguendo Alva Noe e il suo riferimento a due tipi fondamentali di correlati della mente: quello del corpo-cervello e quello dell'ambiente-mondo.

Siamo ormai abituati a parlare del cervello sulla base di quanto emerge dalle ricerche effettuate con tecniche come la fMRI, la PET, la TAC, l'EEG o la recente e promettente optogenetica, quindi assumendo che i dati forniti da tali tecnologie possano corrispondere ai correlati neurali della mente e quindi dimostrare che uno stato di coscienza dipenda causalmente ed esclusivamente dall'attivazione di una certa area cerebrale: queste tecnologie rappresenterebbero, in ultima istanza, delle "macchine leggi-pensieri" e ci potrebbero spiegare tutto ciò che c'è da sapere sulla mente. In tal senso, Alva Noe ci mette in guardia dalla potenziale nascita di una nuova frenologia in cui si ipotizzi che ci sia una perfetta corrispondenza fra i dati del "brain imaging" e gli stati mentali e di coscienza. L'esempio che il nostro autore fa è quello degli stati vegetativi permanenti, dicendo che "i pazienti che si trovano in uno stato vegetativo permanente mostrano una marcata riduzione del metabolismo cerebrale globale, così come avviene per i soggetti che si trovano nella fase del sonno cosiddetta 'a onde lente' o per i pazienti sottoposti ad anestesia. Tuttavia questi ultimi si svegliano e sono in grado di riacquistare un normale stato di coscienza, mentre i pazienti in stato vegetativo permanente raramente lo fanno. Vale la pena ricordare che, in un piccolo numero di casi in cui sono stati studiati con visualizzazioni cerebrali pazienti che avevano recuperato dallo stadio vegetativo permanente, riacquistando piena coscienza, è risultato che i livelli metabolici (rilevati con il "brain imaging", nda) rimanevano bassi anche dopo il pieno recupero. Inoltre, stimoli esterni quali suoni e punture producevano (nello stato vegetativo, nda) un significativo aumento dell'attività neuronale nelle cortecce percettive primarie. Nuove ricerche condotte in Belgio da Steven Laureys e dai suoi colleghi mostrano sorprendentemente che nei pazienti in stato vegetativo sono presenti danni alle connessioni funzionali tra aree corticali distanti e tra strutture corticali e subcorticali. Inoltre, le stesse ricerche mostrano che anche nei casi in cui la coscienza viene riacquistata, fermo restando un generale abbassamento dell'attività metabolica, le connessioni funzionali tra aree cerebrali sono ristabilite" (A. Noe, cit.).
Ne emergono questioni molto serie sulla nostra capacità di dedurre tramite il "brain imaging" cosa davvero accada alla coscienza di una persona: "Un paziente che si trovi in uno stato vegetativo permanente sente dolore fisico? Per esempio, quello legato alla sete, alla fame, alla puntura di uno spillo? Può udire il rumore di una porta che sbatte? Sappiamo che egli muove la testa in risposta a un suono e che ritira la mano dopo la puntura di uno spillo. Sappiamo inoltre che tali stimoli producono nel paziente una significativa attività neuronale a livello delle cortecce percettive primarie. Il paziente in uno stato vegetativo è forse un robot in grado di rispondere in modo automatico agli stimoli esterni, senza però provare alcuna sensazione? E ancora più importante, tutto questo è qualcosa che le tecniche di visualizzazione cerebrale possono aiutarci a decidere? Non sappiamo come rispondere a queste domande" (A. Noe, cit.).
Fonte: http://www.med.harvard.edu/AANLIB/home.html
Ancora sull'uso di PET e fMRI Alva Noe asserisce che:
"PET e fMRI forniscono come prodotti finali delle immagini colorate. Ogni colore corrisponde ad un preciso livello di attività neurale; la configurazione dei colori indica le aree del cervello dove si ritiene che sia presente un'attività neurale. Zone più luminose indicano livelli di attività maggiori. E' abbastanza facile misconoscere che le immagini prodotte da fMRI e PET non sono effettivamente delle istantanee del cervello in azione. Il lavoro dello scanner e dello scienziato assomigliano molto di più all' identikit di un ricercato che un poliziotto traccia ricorrendo all'ausilio di diversi testimoni che allo scatto di una fotografia o di un'immagine ai raggi X. Un identikit fornisce certamente delle informazioni sul ricercato. Tuttavia, non rappresenta direttamente il volto del criminale; si tratta piuttosto di rendering grafico basato su resoconti potenzialmente conflittuali di quello che individui diversi sostengono di aver visto. Più che una vera e propria raffigurazione del ricercato, un simile profilo riflette congetture ed ipotesi avanzate rispetto alla sua identità. In realtà, anche ammettendo che l' identikit in nostro possesso sia verosimile, nulla ci garantisce che ci sia un ricercato. Allo stesso modo, le immagini prodotte attraverso l'impiego di PET e fMRI non possono in alcun modo essere considerate tracce dirette di fenomeni psicologici. Piuttosto, esse rappresentano una congettura, o un'ipotesi, riguardo a ciò che noi pensiamo stia accadendo nel cervello di un soggetto. Per comprendere questo punto vale la pena tenere presente il problema che ci si trova ad affrontare nel momento in cui si desidera determinare quale attività neurale sia rilevante rispetto ad un dato fenomeno mentale. Gli scienziati iniziano assumendo che ad ogni compito mentale - ad esempio, giudicare se due parole siano in rima o meno - corrisponda un processo neurale. Come possiamo decidere quale specifica attività cerebrale tra quelle che si manifestano in concomitanza con un compito mentale sia l'effettiva attività neurale responsabile della capacità che ci interessa analizzare? Per questo occorre innanzitutto avere una chiara idea di come starebbero le cose se lo stesso compito non fosse stato eseguito; occorre cioè disporre di una 'baseline' rispetto alla quale valutare se una certa deviazione da essa corrisponda all'atto mentale in questione. Un modo per ottenere una simile condizione consiste nel confrontare l'immagine del cervello a riposo con l'immagine del cervello che esegue uno specifico compito, come per esempio la formulazione di un giudizio" (A. Noe, 2010).

Ma a questo punto la domanda è "Come decidiamo a cosa assomiglia un cervello a riposo?", si chiede A. Noe, visto che anche nel sonno ci sono fasi in cui esso lavora ancora di più di quando è in stato di veglia?
Come hanno argomentato Guy Van Orden e Kenneth R. Paap "il metodo comparativo assume che non vi sia alcuna reciproca influenza tra ciò che il cervello fa quando compiamo un giudizio di rima e quello che fa quando percepiamo le parole. Nel caso tale influenza esistesse, ne seguirebbe allora che alla sovrapposizione di regioni nelle immagini non corrisponderebbe necessariamente un fattore neurale comune. Oggi sappiamo che tale influenza esiste. L'attività neurale nel cervello durante la percezione, per esempio, non è un processo a senso unico. E' caratterizzata piuttosto da processi circolari e bidirezionali. Esistono, infatti, vie neurali che dai sensi si dirigono verso il cervello, così come ne esistono altre che compiono il percorso inverso." (A. Noe, cit.).
Ne consegue che l'esistenza di processi complessi di feedback neurali non consente di "isolare con precisione" con il "brain imaging" quale sia il correlato neurale di una specifica attività mentale.
Esiste, inoltre, un problema del "quando gli eventi neurali stiano accadendo" in quanto gli eventi cellulari si realizzano alla scala del millesimo di secondo, "ma occorrono scale di tempo molto più lunghe (nell'ordine di un minuto) per rilevare ed elaborare i segnali necessari a produrre immagini. Per queste ragioni gli scienziati sono giunti a sviluppare tecniche di normalizzazione dei dati. Tipicamente, si calcola la media dei dati provenienti da soggetti diversi. Ciò implica la perdita di una considerevole quantità di informazioni. Dopotutto, i cervelli differiscono l'uno dall'altro non meno di quanto accada con i volti e le impronte digitali. Proprio come il contribuente medio americano non ha un peso ed un'altezza fissati, così un'attività neurale media non possiede alcuna localizzazione fissata all'interno di un cervello particolare. Per questo gli scienziati proiettano le proprie scoperte su un cervello ideale. Le immagini che vediamo nelle riviste scientifiche non sono fotografie del cervello in azione di una data persona".
Infine, occorre tener presente - come dice A. Noe - che le scansioni cerebrali rappresentano l'attività mentale ad una tripla distanza (quindi sono molto indirette rispetto alla attività neurale in senso stretto): "rappresentano la grandezza fisica correlata al flusso sanguigno; il flusso sanguigno è a sua volta correlato all'attività neurale; l'attività neurale, infine, è considerata correlata all'attività mentale" (cit.).
Esaminato, molto in sintesi, come l'idea di poter vedere il cervello in azione e nel mentre pensa sia molto approssimativa e vada presa "cum grano salis" e quindi avendo stabilito come non esista una causalità diretta fra attività mentale e brain imaging (che va quindi ridimensionato come strumento disponibile alla comprensione della mente, pur essendo di certo un ottimo ausilio), quanto piuttosto una sorta di predicibilità media di tipo statistico e di tipo a "grana grossa" (non si può inferire con certezza che non ci siano sovrapposizioni di attività mentali allo stesso tempo e reciproche influenze, nonché non è possibile essere certi che quanto accade in laboratorio sia identico al "cervello in azione" nella realtà quotidiana), possiamo procedere con più agevolezza nel percorso di comprensione verso la "extended mind". 

Bookmark and Share


lunedì 21 marzo 2011

MathEcoDesign. Il Design e la Matematica al Tempo dell’Informazione, di Ignazio Licata

E' un piacere ed un onore ospitare nel mio blog uno scritto di Ignazio Licata dedicato al rapporto, forse di primo acchitto "inatteso", ma come leggeremo estremamente naturale, fra matematica e design. Tale rapporto, come quello fra tutte le attività cognitive umane di alto livello, si fonda sull'eleganza e più in generale sull'estetica, dove quest'ultima può e anzi dovrebbe essere intesa come un principio originario che da' al tempo stesso ordine e disordine al nostro rapporto con il mondo e con noi stessi in una continua ricerca di nuove armonie e nuovi equilibri. L'estetica è, in tale accezione, una "forma vitale" e, pertanto, può essere considerata una attività cognitiva che caratterizza tutti gli esseri viventi e le loro relazioni all'interno della relativa nicchia ecologica, a partire dalle forme più semplici fino a quelle più complesse (immaginiamo ad es. i riti per l'accoppiamento e per la lotta, i piumaggi vistosi dei maschi di certi volatili e, in generale, i diversi modi in cui la coppia "riproduzione-cibo" si esplica nelle relazioni delle varie specie animali), trovando poi nell'essere umano un salto qualitativo ed evolutivo dove la biologia "diventa" cultura e dove quindi l'estetica assurge ad uno degli elementi principali - se non il principale - della dinamica relazionale socio-culturale, ponendosi così come importante principio unificante tra saperi anche molto diversi fra loro.
Buona lettura.

MathEcoDesign. Il Design e la Matematica al Tempo dell’Informazione 
di Ignazio Licata


La vecchia frattura fra le due culture si è trasformata oggi in un ricco orizzonte dinamico di possibilità interdisciplinari, il germe frattale di una nuova intelligenza interconnessa ed e-motiva, per usare il felice termine di Kas Oosterhuis. E questo coinvolge un nuovo modo di pensare il rapporto tra Matematica, Informazione e Design, il fulcro di una sperimentazione e di una filosofia che stiamo sviluppando all’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Roma.
Progettare una forma ed immergerla nel mondo è un’attività dove la matematica non interviene solo come strumento ausiliario per dare voce e forma ad un’intuizione, ma come elemento costitutivo fondante dell’immaginazione creativa.
Significa pensare in modo sistemico e multidimensionale al dialogo che la nuova forma avrà con lo spazio tempo che la ospita, dialogo che ormai non è più legato soltanto ai rapporti materiali del luogo ma al tessuto informazionale e dinamico che avvolge ed attraversa gli ambienti ad alta virtualità.
La matematica, intesa come attività cognitiva umana e non luogo ideale di perfezioni logiche astratte calate da qualche iperuranio platonico, permette di muoversi tra il certo e l’incerto alla ricerca del possibile e del plausibile. Nella sua natura più profonda, essa rispecchia l’attitudine umana alla ricerca di configurazioni, di pattern ricorrenti, di analogie in sistemi anche assai diversi tra loro, tutte cose da cui dipende il nostro retaggio evolutivo. In questo senso, un approccio epistemologico alla matematica ed al “pensare matematico” è alla base della formazione moderna del progettista e del designer.
L’attività del Designer è l’incontro tra un insieme di precise condizioni “al contorno” formalizzabili e quantificabili (materiali, vincoli fisici e temporali, scopo prefissato, fattori economici ed aziendali) ed un’istanza creativa che deve implementarsi. “Fare design”, trasformare un problema in un progetto, significa non soltanto “ottimizzare” tutti i fattori in gioco e scegliere la via più efficace, ma ottimizzare con eleganza, dando alla soluzione finale un carattere di necessità logica, di semplicità essenziale, coniugando fantasia e ragionamento e realizzando una forma autenticamente “bella”.
L’eleganza matematica di P.A.M. Dirac e quella letteraria di Italo Calvino convergono nell’indicare l’universalità come primo e fondamentale segno della bellezza efficace, quella che lascia traccia nel mondo.
L’essenza della matematica non va confusa con lo “strumento” del calcolo. E’ un errore diffuso, ma fatale. Se si fa quest’errore si può dimostrare tutto ed il contrario di tutto. Ad esempio, scegliere il maggior numero di dati possibili su un problema ed ottimizzarli secondo un qualsiasi criterio (più o meno arbitrario) è un lavoro che i computer fanno benissimo. Basta un’opportuna “ricetta di calcolo” ed inserire tutti i dati disponibili (ed ogni problema reale ha tante sfaccettature da poter attingere ad un numero indeterminato e praticamente infinito di dati!).
Ma questa forma di “ottimizzazione” ha ben poco a che fare con l’autentica attività creativa umana. Le cose più interessanti non possono essere “zippate”, è questa la lezione più profonda e duratura dei teoremi di Gödel. Quello che differenzia una soluzione bella ed elegante da una confusa e non necessaria è la selezione accurata delle ipotesi di partenza e dei dati sui quali concentrarsi, la trasparenza nel trattarli, la giustificazione e l’interpretazione della soluzione adottata. Nell’estremo ed esemplare "Una Storia Semplice" Leonardo Sciascia fa dire al Prof. Franzò : ”L’Italiano non è l’italiano. E’ il ragionare”.
In modo analogo non dobbiamo confondere l’attività matematica con l’immagine sfruttata dal cinema di lavagne e fogli saturi di calcoli (spesso imprecisi: ci sono ben poche lavagne e pagine che si salvano nel cinema, ad esempio quella relativistica di David Summer /Dustin Hoffman in “Cane di Paglia” o la topologia algebrica di Therése ne “L’Albero di Antonia”). Il ragionamento senza creatività è meccanismo vuoto ed una creatività che non sa darsi regole è cieca e senza stile. 
Dietro il fascino cabalistico della trama delle formule, c’è un ordito cognitivo che è la vera essenza della matematica. Ed al quale ci si può avvicinare solo ricordando il monito di K. Wierstrass, un matematico di fine ‘800: “Nessun matematico può esser completo se non ha anche qualcosa del poeta”!

Siamo “matematici” anche quando non lavoriamo con “formule”.  Lo siamo da molto tempo prima che le formule, e forse il linguaggio, facessero la loro comparsa. Quell’istinto di probabilità che regge il gioco predatore-preda e che permette a Monsieur Hulot di cavarsela nel caos del traffico è il laboratorio arcaico in cui si sono sviluppati i primi attrattori di questa nostra facoltà, che prende a prestito risorse dal linguaggio, dall’immaginazione e dalle esperienze senso motorie per guidarci nell’incertezza del mondo. Per quanto ogni generazione tenda a dare alla matematica una genealogia angelica ed una ontologia cristallina, le sue origini evolutive sono fortemente radicate nel nostro “muoverci nel mondo”; si veda, tra i tanti, il discusso e stimolante “Da Dove viene la matematica” di Lakoff e Nunez; e per le tensioni interne ai diversi racconti della matematica il brillante e prezioso “ Che cos’è davvero la matematica” di Reuben Hersh.
In ogni campo un’insieme di assunzioni di partenza, giustificate in vario modo in base all’esperienza, vengono sviluppate attraverso l’uso di una “linea d’attacco” logica, la scelta di ragionare conforme agli “assiomi” che costituiscono il nostro filtro cognitivo, e le conseguenze devono poi fare i conti, di nuovo, con l’esperienza. Se vogliamo vedere i rapporti profondi tra il progetto del designer ed il lavoro del matematico non limitiamoci a forme materiali. Pensiamo al Design di un’azienda, di una società, di un’economia, di un’etica. Pensiamo a quello che vuol dire creare una rappresentazione, ricostruire continuamente il mondo nella nostra testa. Se la nostra rappresentazione è efficace il mondo mostrerà aspetti nuovi, altrimenti resterà muto ed immutabile come una sfinge.
Fare Design significa dunque prendere i modelli matematici e portarli fuori, in una sfida continua e mobile con la concretezza del mondo, informazione che si riconfigura continuamente tra lo scilla e cariddi della necessità e della bellezza. Eco, come Ergonomia e Sostenibilità delle soluzioni. Agire intuitivamente ed elaborare razionalmente in contesti che sono per natura fortemente interdisciplinari: Eco, come Ecologia di rete delle Competenze, intelligenze connesse su spazi di transazione. Il Design non è più la progettazione di forme materiali, il calcolo di forze interne ed esterne, ma è scienza ed arte di strutture dinamiche in-formate su più piani cognitivi ed emotivi. Lo Styling diventa ricerca di soluzioni adattative complesse. Gestire caos e far emergere ordine. E ancora, disordinare per permettere l’esistenza di nuove possibilità. Significa stabilire regole del gioco con altre competenze e metterle in circolo, ampliarle, modificarle, riformularle. Un gioco open source, dove l’informazione iniziale del progetto viene non soltanto calcolata, ma vista, sperimentata, e che alla fine metabolizza materia. Materia sempre meno inerte e sempre più intelligente, dove il dettaglio essenziale parametrizzato permette alla forma-formula di interagire con il mondo con uno scambio di input/output mirato che realizza una funzione, che è pura eleganza.

Non più arte di oggetti statici, ma scienza delle forme dinamiche. Torna attualissima la lezione di D'Arcy W. Thompson nel mirabile On Growth and Form: Impariamo dalla biologia più che dall’architettura grazie all’occhio dell’astrazione matematica. Un progetto di Design contemporaneo è un essere in evoluzione, un Collective Beings con un codice genetico che lo fissa nel range di possibilità ma non lo determina. Un processo, non un oggetto. Gestire quest’enorme spazio virtuale di informazione richiede lo sviluppo di una nuova intuizione che è insieme estetica ed intimamente matematica, secondo la visione del grande Bruno De Finetti (1906-1985), padre della Logica dell’Incerto, molto prima degli attardati profeti next-age di moda. Lo stesso de Finetti che ha coniugato probabilità, scienza delle decisioni e scienze cognitive, che ha dimostrato in tutto il suo percorso intellettuale la validità dell’equazione “astratto = multi concreto”, e che nella tavola rotonda del 1956 con Gillo Dorfles e Pier Luigi Nervi su Forme estetiche e leggi fisiche organizzata da Civiltà delle Macchine pose un tassello fondamentale di uno stile culturale di una filosofia che oggi appare indispensabile riprendere e sviluppare per superare le troppe dicotomie che continuano ad accumularsi sugli ingranaggi della nostra cultura.
Ancora, è necessaria una nuova “larghezza di banda” emotiva e culturale. In sé l’informazione è non meno passiva della materia che la trasporta quando si presenta come “mero dato”. Il Design è il gioco che con le sue regole organizza l’informazione e la rende attiva, crea ordine dal disordine, o immette disordine dove l’ordine si è cristallizzato. Ed è l’arte e la scienza di progettare nuovi giochi, una scommessa che coinvolge assieme le nostre risposte emotive e la capacità di giocare modelli formali, insieme complesso di regole e scelte. Il prototipo è non più il calco di un’idea da attuare ma l’attrattore di istanze molteplici che si integrano e si auto-organizzano in relazioni da cui il progetto emerge come guida verso nuove forme di collaborazione interattiva in un raffinato esercizio di democrazia intellettuale dove, finalmente, non esistono più due culture, e la polarità soggettivo/oggettivo si fonde nell’atto creativo.



Ringraziamenti: Un ringraziamento particolare al Prof. Giordano Bruno, direttore dell’Isia di Roma ed allievo di de Finetti per aver condiviso con me i suoi ricordi del grande maestro, ed ai colleghi Marco Vagnini e Massimo Ciafrei. Ho un debito profondo verso i primi lettori ed entusiasti critici della bozza iniziale di queste riflessioni , i miei studenti di Matematica per il Design I dell’Isia di Pescara. Con loro ho realizzato il più alto desiderio di un insegnante: imparare.

---------------------------------------------

Letture:

 Bruno de Finetti, L’Invenzione della Verità, Raffaello Cortina,Milano, 2006

 Bruno de Finetti, Matematica Logico - Intuitiva, Giuffrè, Milano, 2005

 Reuben Hersh, Che cos’è davvero la matematica, B. C. Dalai Editore, Milano, 2003

 George Lakoff, Rafael E. Nunez, Da dove viene la matematica. Come la mente embodied dà origine alla matematica, Bollati- Boringhieri, Torino, 2005

 Ignazio Licata, La Logica Aperta della Mente, Codice Edizioni, Torino, 2008

 Kas Oosterhuis , Iper-Corpi, Verso un’Architettura E-Motiva, EdilStampa, Roma, 2007

 Michael Schrage, Serious Play, Harvard Univ. Press, 2000

 D’Arcy W. Thomson, Crescita e forma, Bollati-Boringhieri, Torino, 1992

 S. Wolfram, A New Kind of Science, Wolfram Media, 2002

Bookmark and Share


sabato 19 marzo 2011

Cosa è la mente estesa? (1ª Parte)

Fonte: Scientific American
Uno dei problemi fondamentali quando si parla del sistema cervello-mente è sempre correlato al principio di causalità di cui ho già accennato in questo post (ed in questo, che è quello successivo) dove parlavo della sovradeterminazione causale di Jaegwon Kim e delle sue conseguenze teoriche.
In sintesi, sia che ragioniamo in termini di "psicologia ingenua"ossia in termini della nostra esperienza comune e delle credenze socio-culturali consolidate - sia che osserviamo le svariate indagini che si svolgono nel settore delle scienze cognitive e delle neuroscienze, le domande "Cosa causa cosa" e "Chi causa cosa" sono quelle che sorgono immediatamente, oltre ovviamente a "Come funziona" e "Come è fatto", e che ad una attenta analisi finiscono per creare non pochi problemi concettuali. Esiste, cioè, una ipotesi sottostante che tutto ciò che accade dipende da una causa, per quanto complessa essa possa essere.
L'idea di una causalità è per esempio alla base della ricerca in fisica delle particelle del meccanismo di Higgs e del relativo bosone all'LHC di Ginevra: la domanda è da dove deriva la massa delle particelle elementari e sapendo dal Modello Standard che dovrebbe "nascere" dal meccanismo di Higgs lo si cerca utilizzando le collisioni ad alte energie. Se si trova il "bosone di Higgs" allora il Modello Standard è corretto, dunque se si trova sperimentalmente la "causa" ipotizzata allora il modello descrive bene la realtà fisica (è una buona mappa del territorio). Come detto altrove, è evidente che il meccanismo di Higgs in sè è una nostra costruzione fisico-matematica e quindi non "esiste" in quanto tale, esso piuttosto appartiene alla ontologia materiale (detta anche locale) della fisica nel senso che è un "ente" specifico di questa disciplina che è sottoponibile a verifica sperimentale secondo i suoi metodi di verifica specifici.
Questo modo di procedere, dunque, caratterizza il metodo scientifico e pertanto anche quando si studia il cervello si va alla ricerca delle risposte alle domande "Come funziona" e "Chi/Cosa causa cosa", dove la seconda domanda è senz'altro intrinsecamente legata alla prima perchè per dire come funziona un qualsiasi "ente scientifico" (utilizzo un termine generico, immaginiamo ad es. la cellula o il cervello stesso nel suo insieme), sia esso un processo fisico, chimico o biologico, occorre trovare le relazioni fra quelle che si ritengono le sue parti costituenti fondamentali e fra le relative proprietà da un lato e le eventuali relazioni con "il resto del mondo" - cioè con ciò che non è definibile come quell'ente specifico di cui stiamo parlando - e tutte queste relazioni inevitabilmente hanno a che fare, in linea teorica, anche con il concetto di causa-effetto.
E' inimmaginabile pensare che se aumenta la temperatura di un corpo essa lo possa fare senza una causa - endogena o esogena che sia - o che se una persona improvvisamente impazzisce ciò non sia dovuto ad una causa che sia individuabile nella sua biografia ma anche a livello neurobiologico.
Se è vero, però, che "nonostante la nozione di causalità non sia una nozione 'tecnica', dotata di una chiara ed univoca definizione codificata nei manuali di qualche teoria formalizzata, l'analisi causale dei fenomeni sembra parte integrante del ragionamento scientifico tout court e dunque della fisica" (F. Laudisa, 2007) è altresì vero che esiste una prospettiva anticausale (cit.) in cui viene data alla nozione di legge un posto centrale dell'indagine scientifica ed in cui il concetto di causa è di fatto sostituito da quello di spiegazione, mentre la causa in senso ristretto è assimilata a quella aristotelica di causa efficiente (cosa ha prodotto cosa).
D'altronde, anche se sposiamo la tesi nomologica (legge fisica) dell'indagine scientifica è evidente che il concetto di causa ha un proprio valore pratico ed euristico ed è inoltre legato ad una nostra intrinseca dimensione cognitiva connessa alla nostra peculiare scala di osservazione e quindi non può essere totalmente escluso (sappiamo che se tocchiamo il fuoco ci bruciamo, quindi c'è un rapporto causa-effetto fra il nostro atto e le sue conseguenze). In tal senso, la causalità può essere interpretata come una relazione emergente tipica dell'agente cognitivo umano e del suo accoppiamento con l'ambiente (cit.).
In questa ultima accezione, la nozione di causalità diventa un un nostro modo di conoscere e descrivere la realtà e di farne esperienza e pertanto resta a tutti gli effetti un tipo di relazione attraverso la quale possiamo spiegare gli eventi ed i processi che osserviamo, a prescindere dal fatto se essa esista "davvero" nel mondo fisico (immaginiamo ad esempio, vista l'attualità, la reazione a catena  di un reattore a fissione nucleare).
La causalità diventa in tal senso, come qualsiasi concetto scientifico, una nozione epistemologica e non ontologica (non pre-esiste cioè all'osservatore) e si può adattare ad una descrizione dei processi fisici, chimici, biologici, psicologici e socio-culturali anche se con non pochi problemi e non di rado con carenze di risultati fecondi o quanto meno univoci.
Per questo motivo, occorre utilizzare questo concetto chiarendone di volta in volta i limiti ed il significato (depotenziamento del concetto di causalità). In particolare, occorre chiarire il rapporto che c'è fra causalità, determinismo e predicibilità. L'esistenza di un processo deterministico non implica che tale processo sia predicibile come dimostrano i fenomeni di caos deterministico dei sistemi fisici dinamici non lineari che, pur essendo deterministici, sono estremamente sensibili alle condizioni iniziali e quindi non sono predicibili se non sotto specifiche condizioni/limitazioni (es. i fenomeni meteorologici) e mediante lo studio e la determinazione dei relativi attrattori.
Inoltre, come insegna la meccanica quantistica, la famosa equazione di Schrödinger è perfettamente deterministica (associa gli stati al tempo secondo una data evoluzione matematica) anche se poi è con la misurazione che si "sceglie" un suo valore di stato specifico (il cosiddetto "collasso della funzione d'onda"), che non è predicibile in partenza, ma il "mondo dei quanti" è anche descritto dal principio di indeterminazione di Heisenberg e da quello di non località - dimostrato da fenomeni come l'entanglement -, per cui in tale ambito occorre ridefinire il concetto stesso di causalità di cui un esempio può essere quello del filosofo della scienza Tim Maudlin per il quale "Una coppia di eventi A e B si implicano causalmente a vicenda quando l'evento B non si sarebbe verificato se l'evento A non si fosse verificato" (mutua implicazione causale), che presuppone una causa comune (ossia un evento) pre-esistente nel passato di A e B da cui discende ad esempio la predetta relazione di entanglement. Ne consegue che la causalità, anche nel mondo quantistico come in quello classico, non coincide con il determinismo (fra due stati s1 e s2 di un sistema quantistico c'è solo una legge deterministica e non una relazione causale del tipo che lo stato s1 causa quello s2) né tanto meno con la predicibilità, ma può comunque essere ridefinita in altri modi (cioè il mondo quantistico non è necessariamente a-casuale, come per altro la meccanica di Bohm evidenzia con le nozioni di causa formale, informazione attiva e di ordine implicito ed esplicito ) con riferimento a concetti probabilistici (come in termodinamica) come quello di rete causale ideato da Hans Reichenbach
Una rete causale sarà, molto in sintesi, la "direzione della maggioranza dei processi" che avvengono nella rete considerata (Laudisa, cit.).

A questo punto, avendo introdotto e distinto le nozioni di determinismo (es. equazione di Schrödinger), causalità (relazione cognitiva emergente osservatore - mondo osservato, "mutua implicazione causale", "rete causale probabilistica", "ogni evento è l'effetto di qualche causa", "causalità circolare", "causalità non lineare" ecc.) e predicibilità (es. quella dei fenomeni meteorologici), possiamo farci la domanda che si è fatto Alva Noe nel suo "Perchè non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza", ossia da cosa deduciamo che la mente sia "causata" dal cervello, cioè che sia un processo assimilabile alla digestione per lo stomaco e che in quanto tale avvenga esclusivamente dentro il cervello e che pertanto sia solo quest'ultimo il luogo dove avvengono i fenomeni mentali.
Da quello che si legge in numerosi articoli e ricerche dei neuroscienziati sembrerebbe che la mente sia causata dai suoi stati neuronali e che quindi il cervello e la mente siano la stessa cosa: tra i due ci sarebbe totale identità e un presunto "rapporto di causalità esclusivo tra neuroni cerebrali e coscienza".
Secondo tale accezione, la coscienza è dentro il cervello e i suoi correlati sono solo (o quasi esclusivamente) quelli fisici e neurobiologici dentro il cervello.
Nel prossimo post cercheremo di vedere come Alva Noe smonti tale idea "ingenua" e come affronti il tema del confine fra il cervello, il corpo ed il mondo e proponga una teoria - se vogliamo "eretica" - di cosa sia e come si causi la mente, la nostra coscienza e, quindi, la nostra identità di esseri umani.

Bookmark and Share


domenica 6 marzo 2011

Il mio contributo al Carnevale della Chimica 2011

Il logo del Carnevale della chimica 2011
Acqua in chimica si scrive H2O, cioè due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno tenuti assieme da un legame covalente.
Atomi...
Se andiamo ad approfondire cosa è un atomo ben presto ci immergiamo in una realtà, quella subatomica, che alla scala di Planck (1,616 252 × 
10-35 metri, 5,391 × 10−44 secondi e 2,176 45 × 10-8 kg [la massa di Planck]) si comporta in maniera decisamente "strana", essendo governata dal principio di indeterminazione di Heisenberg e dalle leggi della meccanica quantistica con tutte le relative proprietà radicalmente diverse da quanto la nostra esperienza comune ci attesta attraverso le percezioni: ad esempio il dualismo onda-particella, la non località ed il relativo entanglement, la sovrapposizione degli stati.
Insomma, "dentro una molecola d'acqua" c'è un mondo che solo 150 anni fa, quando nacque ad esempio la nostra bella Italia, non si poteva neppure immaginare.
Questo mondo è fatto di particelle elementari come elettroni, quark, neutroni e protoni che singolarmente non hanno la più minima cognizione di far parte dell'acqua e nemmeno si comportano come se ne facessero parte.
L'acqua emerge ad "un certo punto" come risultato fisico-chimico globale di una complessa realtà sottostante e dall'accoppiamento con particolari condizioni fisiche e termodinamiche dell'ambiente.

Ma non addentriamoci nei meandri del mondo quantistico e restiamo a "guardare" questi due atomi di idrogeno e questo atomo di ossigeno che sopra la temperatura di zero gradi centigradi (273,15 gradi Kelvin) si uniscono in maniera da scorrere con le altre "molecole sorelle" dando luogo al cosiddetto stato liquido.
Questa unione di tipo elettromagnetico è stata metaforicamente (assieme alla interazione forte, quella debole e quella gravitazionale) paragonata da Edgar Morin (Etica, 2004) ad una forma di relianza (diciamo di unione, più propriamente "leganza", nozione inventata dal sociologo Marcel Bolle de Bal, in antitesi a "deliance" che sta per "sleganza") intrinseca alla natura e co-esistente con una opposta forza di separazione, che al livello umano il predetto autore ha paragonato all'amore ed all'odio ed al bene ed al male (l'unione degli opposti che troviamo anche nella filosofia cinese del Tao).
In particolare, Morin dice che: Queste quattro grandi tipi di interazione permettono nel cuore del disordine dell'agitazione, di far sorgere un ordine fisico nella e con la formazione di organizzazioni - nuclei, atomi, astri (...) Così il nostro universo si costituisce in un tetragramma dialogico di interazioni nelle quali sono combinati in modo nello stesso tempo antagonista, concorrente e complementare:
L'acqua resta liquida a ben vedere in un limitato "range" di temperatura, ossia fra zero e cento gradi centigradi, perché altrimenti si trasforma in ghiaccio o in vapore acqueo, pur non cambiando le singole particelle elementari di cui è composta la singola molecola: cambia solo l'organizzazione dell'insieme delle molecole e la loro energia cinetica.
Questi range limitati ci fanno capire come la nostra stessa esistenza sia funzione di particolari e fortunate condizioni ambientali.
A ben vedere, inoltre, non è nemmeno certo come si sia sviluppata l'acqua sul nostro pianeta (guarda anche qui e qui), ossia se la sua origine sia endogena e dipendente dalla primordiale attività vulcanica o esogena, a seguito dell'impatto di comete, il cui nucleo è ricco d'acqua, ed asteroidi.
Quello che sappiamo per esperienza diretta sull'acqua è che essa ci è indispensabile per vivere e, in base agli studi anche più elementari, che essa è alla base della genesi della vita sul nostro pianeta.
Noi stessi siamo fatti in buona parte di acqua, che rappresenta circa il 65% della nostra massa corporea,  raggiungendo percentuali elevatissime nella composizione di taluni liquidi corporei come il liquido cefalo-rachidiano (99%), il midollo osseo (99%) ed il plasma sanguigno (85%).
Fonte: http://www.nlm.nih.gov/

Insomma, la cosa stupefacente e meravigliosa che possiamo osservare è che noi esseri umani, come tutta la vita sul nostro pianeta, siamo il frutto di un complesso processo di auto-organizzazione che ha una sorta di centro "iper-sferico" nelle molecole dell'acqua e nella loro "danza" con il "resto degli elementi  chimici", in particolare con il carbonio. L'acqua è tanto fuori che dentro di noi e noi stessi scambiamo con l'ambiente regolarmente acqua assimilando quella pulita ed eliminando quella "usata" sotto forma di liquidi corporei, partecipando inoltre ad un ciclo eco-sistemico più ampio in cui l'acqua è di certo un elemento fondamentale. Il nostro cervello è immerso, in un vero e proprio stato di galleggiamento, nel citato liquido cerebro-spinale (detto anche acqua di rocca), che durante la fase dell'embrione ha una importante funzione nutritiva di tutto il sistema nervoso centrale e successivamente la riveste per le leptomeningi (insieme di aracnoide e pia madre) e per l'ependima, ed inoltre ha delle importanti funzioni:
- meccaniche di lubrificante e di protezione e ammortizzazione in quanto, per il principio di Archimede, il peso di un cervello adulto immerso nell'acqua di rocca è di soli 50 grammi a fronte di una massa di circa 1300 grammi;
- immunologiche;
- di controllo ormonale e vegetativo;
- di rimozione da soluti di fluido extra-cellulare.

In sintesi, il nostro cervello è davvero un cervello nella vascausando una espressione della filosofia della mente, ma a differenza dell'ipotesi filosofica del cervello nella vasca in quanto tale esso non solo ha bisogno, come sostiene Alva Noe, di tutto il corpo per poter essere cosciente e per poter pensare, ma ha bisogno dell'ambiente naturale e di quello socio-culturale.
Di questo aspetto dell'emergenza della coscienza tratterò su questo blog e quindi potrete leggere molto presto degli spunti, spero interessanti, sul rapporto mente-cervello-ambiente.
Riassumendo, abbiamo visto che in una molecola d'acqua è racchiuso un mondo "invisibile" ed affascinante governato in primis dalle leggi classiche della termodinamica e poi, aumentando lo zoom (la scala di osservazione), da quelle quantistiche, che l'acqua è sinonimo di vita e che il pensiero stesso è comodamente avvolto e permeato da questo liquido fondamentale.

Fonte: http://www.greencrossitalia.it/
Resta da fare una considerazione di ciò che l'essere umano fa dell'acqua e di come la stessa è distribuita ed accessibile sul nostro pianeta. E qui, come sappiamo, vengono le dolenti note.
L'acqua oggi è sempre più una risorsa inegualmente distribuita e le previsioni non sono certo confortanti a causa dello sviluppo demografico, dello sviluppo economico e del relativo inquinamento.
Stando alle statistiche delle Nazioni Unite circa il 70% dell'acqua (cd. "freshwater") è utilizzata per l'irrigazione agricola, il 22% per l'industria ed il restante 8% per uso domestico, ma quello che preoccupa è il tasso di incremento della domanda, che entro il 2025 è stimato in un aumento del 50% nei paesi in via di sviluppo e del 18% nei paesi sviluppati.
Sempre per la data citata, la FAO stima che circa 1,8 miliardi di esseri umani vivranno in condizioni di assoluta scarsità di acqua e che i 2/3 della popolazione mondiale avranno seri problemi in tal senso. Le zone del mondo a rischio sono molti paesi dell'Africa, del Medio Oriente, Asia Orientale e alcuni paesi dell'Europa dell'Est (guarda qui per una sintesi e qui per un approfondimento).
Last but not least, una osservazione sul nostro consumo di acqua potabile. E' ormai abitudine comune bere acqua in bottiglia, magari con le "bollicine" quando, invece, ci dicono sempre più spesso che l'acqua negli acquedotti non è poi così male o comunque non è peggio rispetto a quella in bottiglia (vedi qui e qui). Oltre il noto problema ambientale che ciò comporta (petrolio consumato, costi di trasporto, consumo di acqua per la produzione di PET, emissioni di CO2), vorrei sottolineare come sia ravvisabile in questo fenomeno il nostro rapporto di crescente sfiducia in tutto ciò che dovrebbe essere naturale a favore di una sua versione "sterilizzata" di tipo industriale, laddove la sfiducia iniziale è causata dalla stessa industrializzazione e dal relativo inquinamento.
Davvero paradossale, no?
E, infine, vorrei concludere con una poesia sul mare - l'acqua ispiratrice per eccellenza - di Fëdor Ivanovič Tjutčev intitolata "Sogno sul Mare" :

"E il mare in tempesta agitava la nostra barca; 
Io, assonnato, mi abbandonavo al capriccio delle onde. 
Due infiniti erano dentro di me, 
Giocavano con me al loro piacere
Io giacevo stordito nel caos dei suoni
Ma sul caos dei suoni si innalzava il mio sogno
Nell'ardore della febbre creava il suo mondo;
La terra verdeggiava, scintillava l'etere,
Giardini-labirinti, palazzi, colonne
E brulicava una folla di esseri silenziosi."

W il Carnevale della Chimica 2011!
Ringrazio il Chimico impertinente per avermi invitato a questa iniziativa che ritengo davvero simpatica ed utile e che è stata promossa da Franco di Chimicare (che ha ospitato il primo carnevale) e Claudio Pasqua di Gravità Zero.
Dedico questo post, inoltre, ai miei figli Giada, 10 anni, e Alessandro, 7 anni e mezzo, e a tutti i bambini e ai ragazzi perchè possano appassionarsi ai temi della scienza in maniera sempre "carnevalesca" e gioiosa.


P.S. il "carnevale di link" di questo post vuole essere uno stimolo all'approfondimento, spero che li "clicchiate" e magari vi appassioniate a qualche argomento che ancora non conoscete.

Bookmark and Share