Il nostro cervello è un organo complesso che, pur essendo "unitario", è composto da circa 100 miliardi di cellule e 60.000 miliardi di sinapsi (J.D. Vincent, 2008), è inoltre suddiviso in due emisferi che sono separati da una profonda scissura (la scissura longitudinale) e che sono collegati principalmente attraverso il corpo calloso.
Inoltre, il cervello è suddivisibile in regioni tra cui le principali sono il lobo frontale, il lobo parietale, il lobo occipitale, il lobo temporale, il cervelletto, il tronco encefalico, mentre la corteccia cerebrale è suddivisa in corteccia motoria, corteccia uditiva e corteccia visiva (Chris Frith, 2009).
E' evidente, d'altronde, che il cervello è un sistema complesso che è profondamente interconnesso sia al sistema nervoso (centrale e periferico) sia in generale a tutto il nostro corpo, ma attraverso il suo studio con le tecniche di "brain imaging" (la PET e la fMRI, rispettivamente la tomografia ad emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale) si sta constatando che ci sono delle aree che presiedono a determinate funzioni e che formano dei veri e propri circuiti neurali coinvolgendo ghiandole e la relativa produzione di neurotrasmettitori.
Un articolo molto interessante apparso su Le Scienze di giugno 2010 a firma di Thomas R. Insel (psichiatra e neuroscienziato, direttore del National Institute of Mental Health) ha evidenziato come nel nostro cervello ci sia un area denominata "Area 25" (definizione proposta nel 1909 dal neurologo Korbinian Brodman) che funge da centralina (un hub principale all'interno della rete neurale) dei circuiti all'origine della depressione.
Quest'area, in base al predetto articolo, "si collega a strutture quali l'amigdala, che genera paura ed ansia e l'ipotalamo coinvolto nelle risposte dello stress. A loro volta queste strutture scambiano segnali con l'ippocampo, centro della memoria, e con l'insula, che elabora le percezioni sensoriali e le emozioni. Si ritiene che un'area 25 più piccola del normale aumenti il rischio di depressione in soggetti con una variante genetica che inibisce il trasporto di serotonina (il neurotrasmettitore che presiede tra l'altro all'umore, nda)".
Il Prof. Insiel evidenzia, inoltre, come un malfunzionamento di particolari aree cerebrali, che possiamo considerare come una sorta di "loop" dei suoi circuiti, siano la probabile causa di altri disturbi come ad esempio quelli ossessivi-compulsivi (in cui viene interessata la corteccia orbitofrontale in un ciclo che coinvolge il nucleo caudato ventrale, i gangli della base e il talamo) e il disturbo post-traumatico da stress (che presenta una attività anomala nella corteccia prefrontale ventromediale) e che agendo proprio su queste "connessioni difettose" si possano ottenere risultati interessanti.
Ne consegue che quelli che ancora oggi sono considerati "disturbi della psiche" intesa quasi come una entità metafisica possono invece essere ricondotti a malfunzionamenti di determinati "circuiti cerebrali" e quindi potranno in futuro essere curati con appropriate terapie elaborate dalle neuroscienze.
In questo, dal mio punto di vista, non ravvederei lo scopo di annullare la soggettività delle varie disfunzioni cerebrali quanto piuttosto un interessante tentativo di connettere la dinamica neurobiologica (i circuiti cerebrali e le varie strutture coinvolte in essi) e la componente genetica con la pur sempre unica biografia individuale, che non può indubbiamente essere sottovalutata.
Dunque, la connessione tra cervello e mente è profonda ed ha una solida base neurobiologica nei circuiti cerebrali e nel funzionamento delle diverse strutture coinvolte.
Il tipo di descrizione che sembrerebbe spiegare questo rapporto tra cervello e mente è quella di un sistema complesso che funziona attraverso la computazione naturale e che produce emergenza semantica e la coscienza (essa stessa un "prodotto" emergente del cervello).
In particolare, la computazione naturale o analogica (nei sistemi formali continui, che trova il suo campo d'applicazione nei sistemi dinamici e nelle reti neurali) ha le seguenti caratteristiche (Licata, 2008):
1. capacità evolutiva auto-organizzante, il processo non termina e modifica i suoi obiettivi in base al contesto;
2. informazione continua, logica a valori multipli, pattern continui nello spazio-tempo;
3. elementi random, emergenza intrinseca;
4. dati "fuzzy", strategia di ottimizzazione adattiva;
5. parallela e non lineare.
Il cervello umano è, inoltre, il frutto dell'evoluzione biologica e quindi si è "modellato" nel tempo attraverso la mutazione genetica, la selezione naturale e l'interazione dinamica e co-evolutiva con l'ambiente.
In questa evoluzione mi sembrano importanti da un lato il già citato approccio di Stephen Jay Gould con la teoria degli equilibri punteggiati (ci sono degli "improvvisi salti" e punti di discontinuità nel processo evolutivo) e dall'altro il pure citato concetto di processo stocastico introdotto da Gregory Bateson riguardo ai cambiamenti dovuti ai geni e quelli dovuti all'apprendimento (abitudini, ambiente, cultura) ed alle loro relazioni.
La artificiosa suddivisione fra corpo e mente tipica della cultura occidentale e risalente al razionalismo cartesiano (res cogitans e rex extensa) è oggi sempre più in fase di superamento tramite un approccio sistemico in cui corpo, cervello e mente sono intimamente connessi fra loro e all'ambiente anche se nei fatti la lotta tra il riduzionismo e l'approccio complesso e sistemico è sempre attuale.
In questo confronto, possiamo ravvisare da un lato la semantica che vuole il mondo scomponibile ("zippabile") nei suoi "mattoni elementari" e dall'altra invece quella che vede nella connessione profonda e intrinsecamente sistemica ed "ecologica" il modo di descriverlo e studiarlo.
La molteplicità del mondo, quindi, ha richiesto in prima battuta una sua suddivisione in parti più semplici fino ai suoi livelli più "elementari" (corpo-mente, gli organi del corpo, la cellula, l'atomo, le particelle sub-atomiche ecc.) per studiarne le proprietà per poi ritornare ad una miriade di tentativi di unificazione che nei relativi approcci più ambiziosi cercherebbero di trovare una "teoria del tutto", che per diversi pensatori della complessità è invece alquanto improbabile.
La stessa conoscenza umana, come ben dice Ignazio Licata, è fatta da "infinite variazioni su pochi temi" che sono in fin dei conti le domande di base "chi siamo", "da dove veniamo" , "dove andiamo" e altre del tipo "come pensiamo", "come conosciamo", "come comunichiamo", "come viviamo", "perché viviamo", "perché moriamo", "esiste Dio" ecc.
Quello che è osservabile è la molteplicità in cui ci si presenta il mondo e le relazioni sempre più complesse fra i suoi elementi alle diverse scale di osservazione da quella fisica fino a quella socio- culturale.
Sembrerebbe quasi di essere di fronte ad una "strategia organizzativa" dell'universo che si alimenta di differenze e di trasformazioni per "conservare" la propria esistenza: pensiamo alle continue trasformazioni fisiche e chimiche, all'evoluzione del cosiddetto "albero della vita", in cui tanti rami sono ormai andati secchi, ma tanti altri sono invece sopravvissuti e si sono trasformati adeguandosi all'ambiente, e infine alla molteplicità di culture, lingue e religioni nel genere umano.
La complessità pervade tutti i livelli di organizzazione del mondo e quelli socio-culturali e politico-economici non fanno certo eccezione.
Gli esseri umani hanno da sempre percepito il "peso" e il "pericolo" derivante dalla molteplicità e dalla "diversità" cercando di controllarle sia con la tecnica prima, la tecnologia poi, sia con forme di organizzazione sociale, politica, religiosa ed economica.
In estrema sintesi, laddove la molteplicità si auto-genera e si auto-organizza "naturalmente" l'essere umano ha nel corso del suo processo evolutivo invece introdotto, forse per "exattamento" (secondo lo schema degli equilibri punteggiati di Gould; ad es. l'uomo "scopre" casualmente e senza premeditazione che un bastone può essere un'arma), nuove tecniche (tra cui lo stesso linguaggio), che gli hanno consentito di esercitare gradualmente un controllo sull'ambiente e sulla convivenza sociale.
Taluni come Umberto Galimberti invertono il rapporto uomo-tecnica considerando la tecnica una necessità per l'essere umano che sarebbe, come diceva Arnold Gehlen, "l'essere organicamente manchevole" e dunque inadatto alla vita in ogni ambiente naturale.
In tal senso, la tecnica non sarebbe frutto dell'evoluzione ma "il carattere innato necessario allo sviluppo dell'uomo" (Cini, 2006) e quindi in quanto "innaturale" destinata a porsi dialetticamente con il mondo fino potenzialmente a distruggerlo.
Comunque sia (io ovviamente propendo per una interpretazione evoluzionistica della tecnica), resta il fatto che attraverso il linguaggio (anche quello fatto di immagini e segni nelle caverne del Paleolitico superiore risalente a 40.000 anni fa) e la tecnica l'essere umano ha cominciato a fronteggiare la molteplicità del mondo ed i suoi rischi e pericoli tentando gradualmente di descriverlo e di dargli un ordine, cioè il suo. Ecco che attraverso il linguaggio, che nasce grazie ad una capacità anatomica dovuta ad un abbassamento della laringe ed un avvicinamento del palato alla colonna vertebrale e che sembra avere una origine linguistica unica africana secondo Merritt Ruhlen (Cini, 2006), l'essere umano comincia a costruire il suo mondo (nomi, soggetti e predicati nascerebbero intorno al 20.000 a.C. secondo Julian Jaynes mentre per altri i primi linguaggi iniziarono con i gesti e quindi con il bipedismo molto prima, già con Homo erectus) e la sua conoscenza, dando come dicevo il suo ordine soggettivo alla molteplicità fenomenologica.
Anche qui addentrarsi sulle origini del linguaggio è abbastanza complicato, ma ciò che mi preme rilevare è che attraverso l'uso del linguaggio e della tecnica l'essere umano ha cominciato a costruire il suo mondo, anzi i suoi mondi molteplici a seconda delle culture e delle religioni e in tal modo si è dato delle organizzazioni sociali sempre più complesse.
Il processo è quello di "creare ordine dal caos circostante" per poter sopravvivere e resistere alle avversità (naturali e degli altri esseri umani rivali).
Tornando al nostro discorso iniziale su unità e molteplicità e coincidenza degli opposti, dobbiamo dunque domandarci da quale prospettiva osserviamo il mondo e se includiamo o meno noi stessi in tale osservazione, come ormai la meccanica quantistica - ma anche una più intuitiva visione ecologica ed eco-sistemica della vita - ci ha ampiamente dimostrato che è inevitabile fare.
Evidentemente, se osserviamo l'uni-verso come un unico sistema complesso ma profondamente interconnesso ne evidenziamo la sua unitarietà, ma al tempo stesso se osserviamo le singole parti e le diverse scale di grandezza fisica, biologica e poi socio-culturale ci imbattiamo nel molteplice e nella diversità fino ad avere una sorta di "overload informativo" che ci fa imbattere alle "soglie del caos cognitivo" e annaspare in tentativi di descrizione sempre più difficili.
Quella che è sempre presente è la "resistenza del mondo" a farsi conoscere e quindi controllare una volta per tutte, nonostante il nostro linguaggio sempre più evoluto (compreso quello matematico) e la nostra tecnologia sempre più avanzata.
Ecco che allora da un lato si assiste ad un tentativo di ibridazione e contaminazione fra discipline, quasi un tentativo pseudo-rinascimentale laddove il filosofo era anche medico e scienziato, ma anche di ulteriore separazione con la nascita di nuove discipline specialistiche sempre più "difficili" da spiegare all'uomo comune se non con metafore ed analogie.
Così come la bio-diversità garantisce la sopravvivenza della vita (che possiamo immaginare "unitaria") parimenti sembrerebbe che la proliferazione di culture, religioni, scienze e tecniche sia funzionale in qualche modo alla nostra evoluzione come "umanità", unica ma estremamente differenziata e spesso divisa.
Anche le scienze sociali, economiche e politiche hanno cercato di coniugare unità e molteplicità con strategie descrittive e di azione strettamente legate alla relativa dinamica.
Famoso è in politica il "divide et impera", anche se poi si fa spesso appello al "sentimento di unità nazionale", in economia si parla di "glocalizzazione" per descrivere la interdipendenza fra globalizzazione e localismo, mentre in sociologia si cerca di descrivere in termini di teoria generale dei sistemi, autopoiesi ed autoreferenzialità (ad es. Luhmann, Addario), complessità (es. Morin) o di olismo (es. Laszlo) il rapporto "io-noi", "singolo-società", fino alle derive relativistiche e spesso ciniche del post-modernismo.
Unione (symballein) e separazione (diaballein) , quasi come un mantra, continuano a caratterizzare la dinamiche dalla scala fisica fino a quella sociale, politica ed economica.
Fine 3^ parte
---------------------------------------------------
Letture consigliate:
I. Licata, La logica aperta della mente, Codice 2008
Chris Frith, Inventare la mente, Cortina Raffaello, 2008
S. Gould, L'equilibrio punteggiato, Codice 2008
Maturana Humberto R., Varela Francisco J., L'albero della conoscenza, Garzanti, 1999
M. Cini, Il supermarket di Prometeo, Codice, 2006
G. Bateson, Mente e natura, un'unità necessaria, Adelphi, 1984
2 commenti:
Cosa dirti, Mario? Sono d'accordo in ogni punto.
Pubblicai un articolo sul "Divide et Impera", un altro sulla teoria del Chaos che mi è molto cara ed inoltre un articolo sulla democrazia della conoscenza di Edgar Serrano. Un link che non ho copiato nelle note si è "perso" nei meandri di Facebook... peccato!
Grazie Mario, è davvero notevole.
Grazie a te Giovanna!
Sono contento che ti piaccia "affrontare" la conoscenza da tante prospettive, è un modo stimolante di procedere.
Darò un'occhiata ai tuoi post sulla teoria del caos e il "divide et impera" molto volentieri :-)
Posta un commento
Benvenuto! I commenti sono sempre graditi.
Ti invito, però, a rispettare sempre la buona educazione e a non lasciare spam o commenti anonimi.
Grazie!