Fonte: http://www.humanconnectomeproject.org/ |
La coscienza, in tale accezione, è fondamentalmente la nostra esperienza, che non è solo il frutto delle "firme neurali" all' interno del cervello, pur sempre presenti ed importanti, ma è sicuramente qualcosa di molto più complesso che attiene alla vita nel suo insieme e nel suo dispiegarsi all'interno della rete articolata di relazioni con i nostri simili.
Infatti, Alva Noe a tal riguardo afferma che "Per progredire nella comprensione della coscienza occorre rinunciare alla microanalisi neurale interna. Il luogo della coscienza è la vita dinamica dell'intera persona o dell'intero animale (quindi non solo l'essere umano, nda) immersi nel loro ambiente. E' solo assumendo una prospettiva olistica sulla vita attiva della persona e dell'animale che possiamo cominciare a rendere intellegibile il contributo che il cervello da' all'esperienza cosciente" (cit.).
Occorre, dunque, uscire dalla visione di un cervello nella vasca e mettere al primo posto dell'analisi l'essere vivente nel suo insieme. Quello che molte ricerche dei neuroscienziati e degli scienziati cognitivi sembrano far emergere come assunto di base è che il nostro corpo è una sorta di protesi robotica agli ordini di un cervello "autonomo" (materialismo cartesiano) e quindi la verità sarebbe che "siamo cervelli immersi in vasche riempite di liquido nutriente. Le nostre teste sarebbero le vasche ed i nostri corpi i sistemi di supporto vitale che ci consentono di sopravvivere" (cit.).
E' davvero così? Siamo certi che questo tipo di analisi sia feconda di risultati?
Secondo Alva Noe decisamente no. "La coscienza non accade nel nostro cervello. Questa è la ragione per cui non siamo ancora riusciti a dare una buona spiegazione delle sue basi neurali" (A. Noe, 2010 cit.). Ed io concordo in buona parte con Alva Noe, in quanto l'analisi dominante delle neuroscienze e delle scienze cognitive sembra ancora essere variamente dominata da un riduzionismo di fondo che, seppur utile per capire i singoli meccanismi neurologici e le connesse patologie, non può spiegare l'emergenza ed il funzionamento della coscienza come proprietà complessa degli esseri viventi e l'auto-coscienza come peculiare proprietà cognitiva degli esseri umani.
Aggiungerei che capire il funzionamento dei meccanismi della circuiteria elettrochimica neurale non basta nemmeno per capire l'origine di una patologia per poi curarla, come per esempio può essere la depressione (una delle malattie sociali del nostro tempo), ma è altresì evidente come lo studio "riduzionista" di tipo bio-chimico sia comunque molto importante per trovare delle terapie farmacologiche, che si rivelano spesso (ma non sempre e comunque) un buon supporto per cure psicologiche e comportamentali di più ampia portata.
Entra qui in gioco il più ampio discorso della causalità, al quale ho accennato nel precedente post e dei correlati concetti di determinismo e predicibilità: l'idea (neo)riduzionista si fonda essenzialmente sul principio di chiusura causale del mondo fisico, sul quale occorre mettersi ben d'accordo essendo in ultima istanza comunque un principio metafisico (non fisico come può essere la legge di conservazione dell'energia) di tipo materialista.
Esistono diversi modi di descrivere tale principio, i cui principali sono i seguenti:
1. Nessun evento fisico può avere una causa al di fuori del dominio fisico (Jaegwon Kim, neo-riduzionismo);
2. Tutti gli effetti fisici possono essere in ultima istanza ridotti a cause fisiche (versione riduzionista forte);
3. Qualsiasi evento fisico che ha una causa ha una causa sufficiente di tipo fisico;
4. Tutti gli effetti fisici hanno cause sufficienti di tipo fisico;
5. Tutti gli effetti fisici hanno una completa causa fisica;
6. Qualsiasi effetto fisico ha una storia fisica autentica e pienamente significativa;
7. Qualsiasi effetto fisico ha la sua occorrenza determinata solo da eventi fisici;
8. Nessun effetto fisico ha una causa non fisica;
9. Effetti fisici hanno solo cause fisiche;
10. Qualsiasi volta in cui qualche evento fisico ha una causa, esso ha una causa sufficiente di tipo fisico;
11. Se non si da' il caso che accade A, allora B non accade (logica controfattuale).
Inoltre, dobbiamo intendere per :
a. causa necessaria : Se x è causa necessaria di y, allora la presenza di y necessariamente implica la presenza di x. La presenza di x, comunque, non implica che y si presenterà.
b. causa sufficiente: Se x è causa sufficiente di y, allora la presenza di x necessariamente implica la presenza di y. Comunque un'altra causa z può può alternativamente causare y. Così, la presenza di y non implica la presenza di x.
Si può notare che nei vari modi di enunciare il principio di chiusura causale, tranne in quello forte al punto 2. dove si parla esplicitamente di riduzione sempre e comunque a cause fisiche, alcuni (versione "debole") menzionano la causa sufficiente per cui se con y intendiamo la coscienza come "effetto fisico" e con x i "correlati neurali" non si può escludere a priori che possa esistere un'altra causa z (non strettamente fisica), diversa da x, che possa causare y, mentre gli altri più in generale tendono in diversa maniera ad escludere che la coscienza possa essere causata da cause non fisiche, essendo la coscienza stessa un evento fisico (p.e. Jaegwon Kim). Più generale e "alternativa" è la versione controfattuale di cui ho già parlato nel post precedente, che non fa ipotesi sulla natura - fisica o meno - della relazione causale, ma solo sul manifestarsi contestuale (mutua implicazione causale) di x e di y.
L'obiettivo, in fin dei conti, è quello di escludere il mistero e principi metafisici di tipo "spirituale" dalla spiegazione della coscienza, per cui se partiamo da questo assunto anche noi, ossia se facciamo una ipotesi di tipo naturalistico e materialista (non solo nel senso fisico di materia-energia-informazione, ma anche di tipo socio-culturale), possiamo continuare a parlare di coscienza in senso più ampio seguendo Alva Noe e il suo riferimento a due tipi fondamentali di correlati della mente: quello del corpo-cervello e quello dell'ambiente-mondo.
Siamo ormai abituati a parlare del cervello sulla base di quanto emerge dalle ricerche effettuate con tecniche come la fMRI, la PET, la TAC, l'EEG o la recente e promettente optogenetica, quindi assumendo che i dati forniti da tali tecnologie possano corrispondere ai correlati neurali della mente e quindi dimostrare che uno stato di coscienza dipenda causalmente ed esclusivamente dall'attivazione di una certa area cerebrale: queste tecnologie rappresenterebbero, in ultima istanza, delle "macchine leggi-pensieri" e ci potrebbero spiegare tutto ciò che c'è da sapere sulla mente. In tal senso, Alva Noe ci mette in guardia dalla potenziale nascita di una nuova frenologia in cui si ipotizzi che ci sia una perfetta corrispondenza fra i dati del "brain imaging" e gli stati mentali e di coscienza. L'esempio che il nostro autore fa è quello degli stati vegetativi permanenti, dicendo che "i pazienti che si trovano in uno stato vegetativo permanente mostrano una marcata riduzione del metabolismo cerebrale globale, così come avviene per i soggetti che si trovano nella fase del sonno cosiddetta 'a onde lente' o per i pazienti sottoposti ad anestesia. Tuttavia questi ultimi si svegliano e sono in grado di riacquistare un normale stato di coscienza, mentre i pazienti in stato vegetativo permanente raramente lo fanno. Vale la pena ricordare che, in un piccolo numero di casi in cui sono stati studiati con visualizzazioni cerebrali pazienti che avevano recuperato dallo stadio vegetativo permanente, riacquistando piena coscienza, è risultato che i livelli metabolici (rilevati con il "brain imaging", nda) rimanevano bassi anche dopo il pieno recupero. Inoltre, stimoli esterni quali suoni e punture producevano (nello stato vegetativo, nda) un significativo aumento dell'attività neuronale nelle cortecce percettive primarie. Nuove ricerche condotte in Belgio da Steven Laureys e dai suoi colleghi mostrano sorprendentemente che nei pazienti in stato vegetativo sono presenti danni alle connessioni funzionali tra aree corticali distanti e tra strutture corticali e subcorticali. Inoltre, le stesse ricerche mostrano che anche nei casi in cui la coscienza viene riacquistata, fermo restando un generale abbassamento dell'attività metabolica, le connessioni funzionali tra aree cerebrali sono ristabilite" (A. Noe, cit.).
Ne emergono questioni molto serie sulla nostra capacità di dedurre tramite il "brain imaging" cosa davvero accada alla coscienza di una persona: "Un paziente che si trovi in uno stato vegetativo permanente sente dolore fisico? Per esempio, quello legato alla sete, alla fame, alla puntura di uno spillo? Può udire il rumore di una porta che sbatte? Sappiamo che egli muove la testa in risposta a un suono e che ritira la mano dopo la puntura di uno spillo. Sappiamo inoltre che tali stimoli producono nel paziente una significativa attività neuronale a livello delle cortecce percettive primarie. Il paziente in uno stato vegetativo è forse un robot in grado di rispondere in modo automatico agli stimoli esterni, senza però provare alcuna sensazione? E ancora più importante, tutto questo è qualcosa che le tecniche di visualizzazione cerebrale possono aiutarci a decidere? Non sappiamo come rispondere a queste domande" (A. Noe, cit.).
Fonte: http://www.med.harvard.edu/AANLIB/home.html |
"PET e fMRI forniscono come prodotti finali delle immagini colorate. Ogni colore corrisponde ad un preciso livello di attività neurale; la configurazione dei colori indica le aree del cervello dove si ritiene che sia presente un'attività neurale. Zone più luminose indicano livelli di attività maggiori. E' abbastanza facile misconoscere che le immagini prodotte da fMRI e PET non sono effettivamente delle istantanee del cervello in azione. Il lavoro dello scanner e dello scienziato assomigliano molto di più all' identikit di un ricercato che un poliziotto traccia ricorrendo all'ausilio di diversi testimoni che allo scatto di una fotografia o di un'immagine ai raggi X. Un identikit fornisce certamente delle informazioni sul ricercato. Tuttavia, non rappresenta direttamente il volto del criminale; si tratta piuttosto di rendering grafico basato su resoconti potenzialmente conflittuali di quello che individui diversi sostengono di aver visto. Più che una vera e propria raffigurazione del ricercato, un simile profilo riflette congetture ed ipotesi avanzate rispetto alla sua identità. In realtà, anche ammettendo che l' identikit in nostro possesso sia verosimile, nulla ci garantisce che ci sia un ricercato. Allo stesso modo, le immagini prodotte attraverso l'impiego di PET e fMRI non possono in alcun modo essere considerate tracce dirette di fenomeni psicologici. Piuttosto, esse rappresentano una congettura, o un'ipotesi, riguardo a ciò che noi pensiamo stia accadendo nel cervello di un soggetto. Per comprendere questo punto vale la pena tenere presente il problema che ci si trova ad affrontare nel momento in cui si desidera determinare quale attività neurale sia rilevante rispetto ad un dato fenomeno mentale. Gli scienziati iniziano assumendo che ad ogni compito mentale - ad esempio, giudicare se due parole siano in rima o meno - corrisponda un processo neurale. Come possiamo decidere quale specifica attività cerebrale tra quelle che si manifestano in concomitanza con un compito mentale sia l'effettiva attività neurale responsabile della capacità che ci interessa analizzare? Per questo occorre innanzitutto avere una chiara idea di come starebbero le cose se lo stesso compito non fosse stato eseguito; occorre cioè disporre di una 'baseline' rispetto alla quale valutare se una certa deviazione da essa corrisponda all'atto mentale in questione. Un modo per ottenere una simile condizione consiste nel confrontare l'immagine del cervello a riposo con l'immagine del cervello che esegue uno specifico compito, come per esempio la formulazione di un giudizio" (A. Noe, 2010).
Ma a questo punto la domanda è "Come decidiamo a cosa assomiglia un cervello a riposo?", si chiede A. Noe, visto che anche nel sonno ci sono fasi in cui esso lavora ancora di più di quando è in stato di veglia?
Come hanno argomentato Guy Van Orden e Kenneth R. Paap "il metodo comparativo assume che non vi sia alcuna reciproca influenza tra ciò che il cervello fa quando compiamo un giudizio di rima e quello che fa quando percepiamo le parole. Nel caso tale influenza esistesse, ne seguirebbe allora che alla sovrapposizione di regioni nelle immagini non corrisponderebbe necessariamente un fattore neurale comune. Oggi sappiamo che tale influenza esiste. L'attività neurale nel cervello durante la percezione, per esempio, non è un processo a senso unico. E' caratterizzata piuttosto da processi circolari e bidirezionali. Esistono, infatti, vie neurali che dai sensi si dirigono verso il cervello, così come ne esistono altre che compiono il percorso inverso." (A. Noe, cit.).
Ne consegue che l'esistenza di processi complessi di feedback neurali non consente di "isolare con precisione" con il "brain imaging" quale sia il correlato neurale di una specifica attività mentale.
Esiste, inoltre, un problema del "quando gli eventi neurali stiano accadendo" in quanto gli eventi cellulari si realizzano alla scala del millesimo di secondo, "ma occorrono scale di tempo molto più lunghe (nell'ordine di un minuto) per rilevare ed elaborare i segnali necessari a produrre immagini. Per queste ragioni gli scienziati sono giunti a sviluppare tecniche di normalizzazione dei dati. Tipicamente, si calcola la media dei dati provenienti da soggetti diversi. Ciò implica la perdita di una considerevole quantità di informazioni. Dopotutto, i cervelli differiscono l'uno dall'altro non meno di quanto accada con i volti e le impronte digitali. Proprio come il contribuente medio americano non ha un peso ed un'altezza fissati, così un'attività neurale media non possiede alcuna localizzazione fissata all'interno di un cervello particolare. Per questo gli scienziati proiettano le proprie scoperte su un cervello ideale. Le immagini che vediamo nelle riviste scientifiche non sono fotografie del cervello in azione di una data persona".
Infine, occorre tener presente - come dice A. Noe - che le scansioni cerebrali rappresentano l'attività mentale ad una tripla distanza (quindi sono molto indirette rispetto alla attività neurale in senso stretto): "rappresentano la grandezza fisica correlata al flusso sanguigno; il flusso sanguigno è a sua volta correlato all'attività neurale; l'attività neurale, infine, è considerata correlata all'attività mentale" (cit.).
Esaminato, molto in sintesi, come l'idea di poter vedere il cervello in azione e nel mentre pensa sia molto approssimativa e vada presa "cum grano salis" e quindi avendo stabilito come non esista una causalità diretta fra attività mentale e brain imaging (che va quindi ridimensionato come strumento disponibile alla comprensione della mente, pur essendo di certo un ottimo ausilio), quanto piuttosto una sorta di predicibilità media di tipo statistico e di tipo a "grana grossa" (non si può inferire con certezza che non ci siano sovrapposizioni di attività mentali allo stesso tempo e reciproche influenze, nonché non è possibile essere certi che quanto accade in laboratorio sia identico al "cervello in azione" nella realtà quotidiana), possiamo procedere con più agevolezza nel percorso di comprensione verso la "extended mind".